da Buenos Aires, Maribé Ruscica
Cresce il consumo di alcool e droga nella regione, specialmente tra i giovani. Questo l’allarme in atto in tutta l’America Latina. La droga è divenuta una moneta di pagamento, i piccoli “dealers” si sono moltiplicati e il delitto ha acquistato rapidamente rilevante capillarità sociale, soprattutto nei settori più svantaggiati. Comunque sia, ai governi della regione non piace parlare di “narcotraffico”. Forse perché emerge sempre un grado di complicità tra civili, militari e “narcos”. Forse perché c’è la paura che si stabilisca un consenso generalizzato in America Latina sulla necessità di far uscire i carri armati in strada per chiudere la partita con i “narcos”.
La denuncia in Bolivia. Quando nel 2010, in Bolivia, l’arcivescovo di Cochabamba, monsignor Tito Solari, nato in Italia, parlò dei gravi problemi che dovevano affrontare i giovani del “Chapare” coinvolti nel “microtraffico” della cocaina, sia il governo nazionale sia i “cocaleros” della regione reagirono esigendo dall’arcivescovo una pubblica ritrattazione, minacciando di cacciarlo dal Paese. È dovuta intervenire la Conferenza episcopale boliviana per dire, in un comunicato ufficiale, che, “sia la realtà che la gravità del narcotraffico erano state riconosciute dallo stesso presidente dello Stato plurinazionale di Bolivia”, che non era la prima volta che nei media si parlava del traffico di droga che coinvolge adulti e minorenni e, infine, che come Chiesa boliviana esprimeva solidarietà a monsignor Solari. Pure la Caritas aveva denunciato che, nella regione di Cochabamba, i narcos usavano i bambini per commercializzare la droga ma la Chiesa, nonostante le evidenze, ha dovuto chiarire che il presule aveva solo voluto “farsi eco dell’inquietudine di agenti della pastorale, docenti, padri di famiglia e giovani per la grave minaccia del narcotraffico”. E non ha potuto evitare che alcuni dirigenti del partito di governo – il Movimiento al socialismo (Mas) – chiedessero l’espulsione della Chiesa cattolica dalla Bolivia, considerata “nemica” dei contadini e speculatrice della loro fede.
La situazione in Argentina. In Argentina, quando nel novembre 2013 la Conferenza episcopale denunciò l’avanzata del narcotraffico e “la complicità e corruzione di alcuni dirigenti”, il governo rispose nominando il sacerdote Juan Carlos Molina alla direzione della “Sedronar”, la Segreteria per la prevenzione della tossicodipendenza e la lotta contro il narcotraffico, annunciando che l’organismo si sarebbe concentrato nella prevenzione delle tossicodipendenze, prendendo così distanza dalla lotta contro il narcotraffico. Nei giorni scorsi la complicità denunciata dai vescovi era in prima pagina sui quotidiani locali: dopo un’inchiesta portata avanti dalla giustizia federale a Rosario, la città dell’Argentina più colpita dal flagello della droga, hanno rimosso dalle loro funzioni i responsabili della “Brigada Operativa de Drogas”. Ed è ora imminente una ristrutturazione di tale corpo di polizia. “La società argentina è malata di violenza”, hanno affermato i vescovi argentini nel documento pubblicato dopo l’assemblea plenaria della settimana scorsa. “È evidente l’incidenza della droga”, hanno aggiunto. È stata la presidente Kirchner a rispondere che “quando parlano di un’Argentina violenta, vogliono rieditare vecchie contrapposizioni”.
I problemi in Uruguay. In Uruguay, la preoccupazione della Chiesa riguarda le conseguenze dei recenti provvedimenti sul libero consumo di marijuana. Il presidente Jose Mugica ha dichiarato che “aspetta che il mondo aiuti l’Uruguay in questo esperimento con la marijuana”. Il direttore regionale dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, Rafael Franzini, ha affermato che “dall’osservazione del processo di legalizzazione della marijuana in Uruguay si potrà imparare molto sulle vie da seguire in politica di droghe, soprattutto perché in questo processo esiste un Comitato scientifico della Oea (Organizzazione degli Stati americani) e della Organizzazione panamericana della salute”. “La verità si diluisce in verità parziali e in questo relativismo d’idee, lo stesso essere umano è divenuto relativo”, hanno denunciato i vescovi uruguaiani nel corso dell’assemblea plenaria di marzo. “Cresce il consumo di alcool e droghe, specialmente tra i giovani (il recente regolamento del consumo di marijuana pone serie domande sulle sue conseguenze). I vecchi sono poco apprezzati nella loro esperienza e saggezza di vita e i giovani non trovano chi li ascolti e accompagni nella loro crescita”, hanno concluso.
La preoccupazione in Messico. Nel Messico, dove il governo ha annunciato recentemente l’eliminazione di tre dei principali “càrteles” del narcotraffico (“Los Caballeros Templarios”, “Los Zetas” e il “Cartel de Sinaloa”), esiste adesso un’altra preoccupazione: il pericolo che sorga una nuova struttura criminale, formata da gruppi più piccoli che rappresentino nuove minacce per lo Stato, come è accaduto nella Colombia. Ci sono già, infatti, più sequestri estorsivi perché il narcotraffico è stato, per molti anni e molte persone, una forma di vita. “Se non si riformano la mente e il cuore, se non si rinnova la coscienza in modo tale da generare un’autentica scala di valori, non esisterà riforma capace di aiutarci a superare le intollerabili disuguaglianze e ingiustizie sociali…”, ha avvertito la Conferenza episcopale messicana pochi giorni fa. “Ci manca una vera riforma interiore per riuscire ad avere un Paese migliore”, hanno aggiunto i vescovi, esortando i cattolici a partecipare alla vita sociale e a non lamentarsi del male senza agire contro lo stesso.
Tutti coinvolti in prima persona. Certo che sarebbe auspicabile, in tutta la regione, un insieme di politiche pubbliche più definite. Il vertice dei ministri della Difesa dell’America Latina, che si terrà nei primi giorni di giugno in Perù, potrebbe essere un’occasione ideale per concordare strategie comuni ed efficaci nella lotta contro il narcotraffico. La crescita di consumo di droga in tutta la regione, specialmente tra i giovani, obbliga ad agire presto e a capire – come suggerisce un recente documento della Conferenza episcopale argentina – che “siamo tutti coinvolti in prima persona”.