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“La mia classe” anzi la nostra realtà, di Monica Vallorani

“La mia classe” è uno di quei film da vedere, da far vedere, di quelli che non puoi alzarti dalla poltrona senza che ti ronzino in testa e negli occhi, parole, domande, immagini. Soprattutto quando capita di vederli in particolare momenti.

Se in questi giorni le cronache ci riportano ancoar una volta la tragedia umana, e in quanto umana che ci riguarda tutti, di donne e uomini che sono morti nel mar Mediterraneo, ormai un vero cimitero di migliaia di morti. Allora le storie autentiche, di migrazioni e migranti, raccontate in un film che narra se stesso, in un gioco di rimandi alla realtà di “La mia classe” non lasciano indifferenti.

Il film proposto, mercoledi sera alla presenza del regista Daniele Gaglianone, al cinema Margherita a Cupra, è un film semplice, diretto e immediato ma allo stesso tempo complesso. È la rappresentazione delle dinamiche della realtà sociale attraverso la prospettiva dell’esperienza di un gruppo classe di migranti che imparano l’italiano. Un immagine quindi di per sé originale della rappresentazione dello straniero a livello sociale, perché collocato in una classe, in una scuola, dietro a dei banchi determinato a imparare l’italiano. Un italiano bellissimo, dice il regista al pubblico presente in sala perché parlato male, perché mostra quella determinazione e quella fragilità nell’uso della lingua che sono un allegoria della vita, della vita dei protagonisti, non professionisti attori, ma che interpretano se stessi.

L’idea di fondo del film ha origine nel lungometraggio di Vittorio de Seta degli anni ’70, quando appunto riprese un attore, che interpretava un maestro, con una classe autentica di bambini. Anche in questo film l’unico attore professionista è Valerio Mastrandrea. Ma ancora più interessante è il racconto del regista su come il film rispetto alla sceneggiatura iniziale pensata si sia trasformato colpito dalla realtà dei fatti dei protagonisti coinvolti. Ciò che era immaginato succede realmente. E questa realtà, vissuta, entra nel film rompendo il perimetro protettivo della narrazione, portandovi tutto il disagio e la responsabilità dell’esperienza vissuta. Così il racconto della perdita del permesso di soggiorno di uno dei migranti protagonisti del film, che aveva creato difficoltà alla realizzazione dello stesso, entra trasposto nella finzione nel film, e si rappresenta quello che Issa, il mirante che ha perso il permesso, dice “Se mi rimandano nel mio paese, io mi faccio morto da solo”.

La visione del film fa porre delle domande, i racconti dell’esperienza del viaggio e della migrazione di queste persone, sono testimonianza che richiamano anche una responsabilità sul futuro del nostro paese, dei nostri paesi. Fa emergere quelle domande che più spesso si cerca di evitare, sul perché lasciano i loro paesi. Paesi in cui le condizioni di vita sono inumane, e se ci chiediamo perché, allora ci sarebbe una responsabilità da assumerci come paesi occidentali, sulle scelte economiche, politiche fatte.

Qualcuno del pubblico in sala pone la problematica della distribuzione di un tale film, che sebbene abbia avuto pubblico, è stato schiacciato dai meccanismi della grande distribuzione che vantano rapporti di forza che di fatto limitano la libertà di scelta delle sale riguardo alla programmazione. Quindi il film infatti, racconta il regista, è stato distribuito grazie soprattutto ai circuiti ACEC (associazione cattolica esercenti film) di cui il cinema Margherita fa parte.

Quindi educatori, insegnanti, e non solo guardate e fate vedere questo film nei gruppi, con i giovani per interrogarci e avviare riflessioni e cambiamenti. Per spunti di riflessione clicca qui