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Medicina narrativa: Raccontare la propria malattia migliora la cura

di Giovanna Pasqualin Traversa
Florence Nightingale, vissuta nell’Ottocento e considerata la fondatrice dell’assistenza infermieristica moderna, sosteneva che i pazienti soffrono spesso per cause diverse da quelle indicate nella loro cartella clinica, e se si tenesse conto di questo, molte di queste sofferenze potrebbero essere alleviate. Perché il paziente è una persona, non un caso da risolvere, e oltre alla cartella tradizionale esiste una cartella “parallela”, strutturata sui suoi sentimenti ed emozioni. Una sorta di specchio dell’anima cui dà voce la medicina narrativa, comparsa come Narrative Based Medicine (Nbm) nella letteratura scientifica alla fine degli anni ‘90, “fondata” ufficialmente nel 2000 da Rita Charon presso la Columbia University di New York, approdata successivamente al King’s College di Londra e da qualche anno affacciatasi anche nel nostro Paese.L’arte della cura. Secondo l’Oms, la metà dei pazienti che esce dagli ambulatori non segue la terapia prescritta. “Ciò significa – spiega al Sir Maria Giulia Marini, epidemiologa e counselor, divulgatrice delle Humanities for Health in Italia – che nell’attuale prassi medica non viene colta la verità e la complessità dell’individuo”. Di qui l’aiuto della medicina narrativa: il vissuto dei pazienti raccontato da loro stessi, e le testimonianze di familiari (ad esempio per i malati in terapia intensiva), medici, infermieri. Per lo più testi scritti, ma anche disegni di bambini e “storie orali, lente e cadenzate”, raccolte pazientemente dalla bocca di anziani. Per Marini si tratta di “un atto di riflessione che sistematizza i pensieri convulsi dei malati, ne riduce la sofferenza aiutandoli a elaborare le proprie emozioni (rabbia, paura, solitudine) e a individuare uno stile di convivenza con la malattia”, ma serve anche “a restituire ai professionisti sanitari il significato perduto della propria missione che è ‘arte della cura’, oggi svilita da un’eccesiva burocrazia, da una tecnocrazia invadente e da tempi sempre più compressi. Creando inoltre una migliore relazione di cura, migliora l’efficacia e l’efficienza delle terapie”.

Voce e dignità al malato. Storie che restituiscano spazi, voce, dignità al malato, e ne favoriscano la partecipazione. Per Stefania Polvani, coordinatrice del Laboratorio di medicina narrativa attivo da dieci anni nella Asl di Firenze, “la narrazione aiuta il malato a dare un senso alle esperienze, e il medico a conoscere la persona che ha davanti, costruendo percorsi di cura condivisi”. La medicina narrativa migliora la pratica clinica, consente diagnosi più approfondite, favorisce le relazioni fra paziente, famiglia e medici, ottimizza la strategia curativa e la qualità del servizio, ma ha soprattutto un impatto sull’esito delle cure. E non solo Firenze: i racconti dei pazienti sono inclusi nella cartella clinica nel dipartimento cardiovascolare dell’ospedale San Filippo Neri di Roma, mentre Asl di Savona e Foligno, e servizi a Cagliari, Oristano, Sassari e Torino organizzano corsi e avviano progetti. L’attenzione è puntata soprattutto su persone affette da malattie rare, croniche, oncologiche, neurologiche, della pelle, e sui familiari di pazienti in terapia intensiva.

Iniziative, progetti, testimonianze.
 Lo scorso 4 maggio, Giornata nazionale dell’epilessia, è stato presentato il libro “A volte non abito qui”, frutto del primo concorso letterario “Raccontare l’epilessia”, bandito nel 2013 dalla Lega Italiana contro l’epilessia (www.lice.it), contenente 33 contributi scritti da malati, familiari e medici. Non ha dubbi Oriano Mecarelli, responsabile dell’ambulatorio per le sindromi epilettiche del Policlinico Umberto I di Roma: “La medicina narrativa dovrebbe essere implementata nella pratica clinica, come nel mondo anglosassone, perché costituisce una parte essenziale del rapporto medico-paziente”. E intanto si è appena concluso a Milano il primo master, un percorso internazionale promosso dalla Fondazione Istud (www.memdicinanarrativa.eu) con docenti del King’s College e del Tavistock Center di Londra. Nei lavori presentati le testimonianze scritte di malati di Alzheimer, che di solito non si esprimono verbalmente. Storie che per Paola Chesi, coordinatrice del master, possono indicare nuove soluzioni di intervento “di cui possono beneficiare non solo le persone in cura ma l’intero sistema di welfare, perché ascoltando i bisogni si possono orientare le policy sanitarie e sociali”. Di recente costituzione l’Osservatorio di medicina narrativa italiano (www.omni-web.org) al quale aderiscono quindici realtà, e la piattaforma virtuale ed interattiva www.viverlatutta.it. Dice Rosa Mannetta, colpita da un cancro al seno, “raccontare e condividere con altri aiuta molto, è un modo per liberare la propria anima dall’angoscia”. Per Laura Mazzeri, cui è stato asportato il colon e trapiantato il fegato, “la paura svuota la mente e blocca la vita”, ma “raccontare il trauma dà come un senso storico a questo fatto”. Dare voce alla propria malattia, insomma, ne alleggerisce la pesantezza, e favorendo la ricomposizione di un equilibrio spezzato, può essere di fronte all’ansia per il futuro un cammino di trasformazione e di speranza.

Simone Caffarini: