Sposarsi all’inizio dell’estate e festeggiare il Capodanno da separati. Non è un romanzo di fantascienza ma un futuro a portata di mano, se il “via libera” della Commissione Giustizia della Camera al disegno di legge per il divorzio breve troverà, il 26 maggio, il consenso dell’ aula. Il ddl, approvato ieri a larga maggioranza, sancisce la riduzione dei tempi della separazione: dai tre anni previsti attualmente a dodici mesi in caso di contenzioso e a sei per quella consensuale, indipendentemente dalla presenza o meno di figli. Un invito a valutare i “costi sociali” del divorzio viene dal sociologo Sergio Belardinelli, che denuncia: “abbiamo preso per buono che questo è il tempo della precarietà, dei legami che diventano sempre più labili. Ma allentare il più possibile i legami per fare che?”. Tra le ipotesi, la rivincita del matrimonio religioso: “Mai come oggi abbiamo bisogno di famiglie stabili, di forme educative solide. Esattamente di tutto quello che ci manca”.
Le forze politiche, trasversalmente, hanno salutato il “divorzio breve” come un passo avanti, una conquista di civiltà. E così, sul piano sociologico?
“Sei mesi, o 12, o 24, cambia poco. La vera questione, una volta che abbiamo stabilito che ‘il divorzio è cosa buona’, sono i costi sociali di questa legge: al di là delle opinioni in ordine alla liceità o meno del divorzio, è questo il problema che ci dobbiamo porre. Il divorzio comporta costi sociali per i figli e per il coniuge più debole. È ormai dimostrato da tutte le ricerche sociologiche che un divorzio produce povertà: famiglie benestanti che si ritrovano ad essere famiglie bisognose, semplicemente perché c’è stato un divorzio. Anche per i figli il danno non è solo psicologico: cambia il tenore di vita, si cambia quartiere, un ragazzo che aveva certe amicizie non può più coltivarle… È a questi costi sociali che si dovrebbe guardare con più attenzione e senso della realtà. È finito il momento dei proclami ideologici: ciò che bisogna fare è guardare realisticamente a che cosa il divorzio produce nella realtà, e valutare se un provvedimento allevia o invece esaspera i problemi. Visto che non vogliamo più affrontare l’essenziale, cerchiamo di mitigare almeno gli effetti collaterali”.
Anche il divorzio breve è il frutto della mentalità “mordi e fuggi”, che squalifica tutto ciò che ha a che fare con la durata?
“Qualunque siano le opinioni sulla legittimità o meno del divorzio, non possiamo non avviare una riflessione seria su cosa una società è bene che proponga, quanto meno come ideale: se relazioni, anche coniugali e familiari, ‘mordi e fuggi’ o la voglia di investire culturalmente su modelli diversi da quelli che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi. C’è tutta una cultura che tende a promuovere la precarietà delle relazioni umane, a tutti i livelli, dando per scontato che sia un valore. Non si tratta di fare i bigotti: io potrei dirle che sono favorevole al divorzio, ma ritengo sia interesse della società investire di più su una cultura che promuova il dialogo, la responsabilità, il senso di una vita in cui non ci sia spazio solo per noi: l’esercizio di responsabilità nei confronti dei nostri figli non può essere liquidato con il fare ciò che ci fa più comodo. Ci vuole più attenzione alla stabilità delle relazioni, all’importanza che in una società hanno relazioni stabili. Non è una questione morale, ma una questione economica: il rischio è che mentre tendiamo ad accrescere la precarietà, ci troveremo a gestire problemi ingestibili con la cultura e le risorse di cui disponiamo in questo momento”.
L’accorciamento dei tempi del divorzio non banalizza ulteriormente il matrimonio?
“Oggi assistiamo alla banalizzazione di qualsiasi relazione tra le persone: sulla relazione coniugale si scarica più che altrove una cultura dell’individualismo, del provvisorio, della precarietà. Ormai tutti i sociologi sanno che vivere nella precarietà, quando questa idea diventa forma di vita, è duro; è doloroso vivere in quel modo. Ecco perché bisogna mettere da parte le ideologie e porsi seriamente la questione del bene della società in cui siamo, e farlo con responsabilità: senza voler imporre la propria visione, ma mettendo il bene delle persone come orizzonte di ciò che si fa e si pensa. È un preciso appello innanzitutto a chi riveste responsabilità pubbliche”.
Più che sul divorzio breve, i giovani di oggi sembrano concentrati sul procrastinamento del matrimonio…
“I giovani hanno una paura terribile di istituire relazioni. A differenza di ciò che teorizzano i suoi ideologi, la precarietà genera disagio, spaesamento, senso di insoddisfazione. I giovani sono spaesati perché noi non abbiamo investito abbastanza sul fatto che le persone che se la cavano meglio nella precarietà e nella frammentarietà in cui viviamo sono quelle che sentono di essere radicate, di appartenere a qualcuno o a qualcosa. Sono i valori che danno stabilità, che ci consentono davvero di poter vivere in questo mondo come una grande opportunità. Questo è empiria, non sono chiacchiere: stabilire legami è una condizione indispensabile per una vita libera, felice, soddisfacente”.
La crisi del matrimonio può diventare, paradossalmente, la rivincita del matrimonio religioso rispetto al matrimonio civile?
“A ciascuno è dato di vivere nel tempo in cui sta. Non è che ieri si stava meglio di oggi: oggi abbiamo opportunità straordinarie, ma non abbiamo la cultura per poterle sfruttare. I sociologi stanno scoprendo che le persone più soddisfatte sono quelle che praticano alcune virtù, che seguono alcuni valori che servono a vivere bene non nell’iperuranio, ma in questo mondo frammentato, difficile, precario. Mai come oggi abbiamo bisogno di famiglie stabili, di forme educative solide. Esattamente di tutto quello che ci manca”.