Di Riccardo Benotti
“Non si confonda mai lo svantaggio con il soggetto svantaggiato. Sarebbe come ritenere che il condannato sia tutt’uno con la colpa che deve espiare o il malato sia un’unica cosa con la malattia che lo affligge. La persona portatrice di uno svantaggio è una persona come tutte le altre e deve essere considerata sulla base della sua dignità. Altrimenti non ci sarebbe mai salvezza e anche l’intervento mirato a ripristinare standard adeguati di vita non farebbe altro che ghettizzare ancora di più, tenendo la persona isolata e identificandola come diversa”. Lo afferma l’avvocato Felice Testa, docente di diritto del lavoro all’Università Europea di Roma, che anticipa i primi risultati della ricerca su “Non autosufficienza, disabilità, disagio psico-fisico specialmente giovanile. Profili giuridico-istituzionali” che verrà presentata questo pomeriggio a Roma durante i lavori del seminario “Lo svantaggio sociale e l’individuazione delle tutele tra intervento pubblico e privato”.
Perché parlare di “svantaggio sociale”?
“Quello dello svantaggio è un tema di rilevanza sociale, ancor prima di diventare legge risponde ad un’istanza che proviene da un sentimento morale diffuso di tutela delle situazioni più fragili. Se però continuiamo a cercare soluzioni guardando soltanto al soggetto portatore dello svantaggio, si corre il rischio che l’eterogeneità di interventi aumenti. Per questo è opportuno razionalizzare quello che il panorama già offre: per gli operatori del settore avrebbe già una ricaduta importante. L’oggettivizzazione del problema aiuta così a creare una categoria, quella dello ‘svantaggio’, che può essere considerata alla stregua di un denominatore comune a diverse condizioni di vita: non autosufficienza, disabilità, disagio psico-fisico. Lo svantaggio è la situazione diversa rispetto a quella che può essere considerata standard”.
Creando una categoria più ampia, non si rischia di trascurare le situazioni specifiche?
“Se è vero che oggettivizzare il problema sembra contrastare con una logica che invita a distinguere le singole realtà, perché una tutela uguale per tutti è come una tutela per nessuno, parimenti si impone la necessità di una valutazione media come base di partenza. Da questa oggettivizzazione, naturalmente, si andranno poi ad individuare i bisogni specifici. Il problema, in verità, è che spesso non si arriva neanche alla individuazione di quei mezzi adeguati che la Costituzione impone”.
In che senso?
“Il lavoratore è membro di una famiglia. Intorno al lavoro cresce la famiglia e intorno ad essa si costituisce la società. Molti dimenticano il secondo comma dell’art. 4 della Costituzione: ‘Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società’. Deve, non è che può. Stare con le mani in mano è odioso perché ciascuno di noi sta nella società e per la società. Nel momento in cui un cittadino si trova in una situazione di svantaggio, rispetto ad uno standard di adeguatezza sociale, non soltanto è lesa la sua dignità di persona ma non è nemmeno messo in condizione di contribuire al progresso della società”.
E sembra che la produzione normativa in Italia non aiuti…
“Gli interventi di legge sono assai frastagliati e poco organici, un’ampiezza accresciuta dal fatto che le Regioni hanno ampia discrezionalità di azione. Per fare un esempio, soltanto il Lazio ha disciplinato gli stage e i tirocini per i giovani in condizione svantaggiate. Di fronte a questo vasto scenario – che va dalla non autosufficienza alle garanzie per i giovani – le persone possono risultare ‘svantaggiate’ da un punto di vista economico ma non sociale, o soltanto rispetto a determinati temi e non ad altri”.
Chi sono i nuovi svantaggiati?
“È un problema assai diffuso nel Paese e cominciano ad entrare nuove realtà nel concetto di svantaggio sociale: ad esempio le possibilità di accesso al credito, perché le condizioni economiche disagiate sono ormai considerate gravi al pari di altre. La situazione di svantaggio sociale, inoltre, inizia ad interessare non più soltanto le categorie classicamente considerate – giovani e anziani – ma anche le fasce di età medie. Pensiamo ai 45enni che perdono lavoro e si ritrovano in condizioni di vita drammatiche. O ai giovanissimi, rispetto ai quali si registra una crescita considerevole dell’uso degli stupefacenti”.
Eppure la famiglia continua ad essere un argine al disagio sociale…
“Certamente una larga parte del Welfare è ancora affidato alla famiglia, che svolge anche un altro ruolo fondamentale: quello di controllo sociale. È la famiglia che rende ammissibili certi comportamenti e intollerabili altri. Oggi, però, questa funzione sta venendo meno, mentre aumentano gli stimoli a cui sono esposti i giovani rispetto al passato. E questo cedimento della famiglia deve far ripensare anche alcuni aspetti del sistema previdenziale”.