“Liberiamole tutte!”: la storia delle oltre 200 studentesse nigeriane della scuola di Chibok rapite dal gruppo estremista islamico Boko Haram ha scosso l’opinione pubblica mondiale e generato un’ondata di sdegno planetaria. In tanti, ad ogni latitudine, si sono alzati in difesa di queste ragazze, dai 12 ai 17 anni, ed hanno cercato, riuscendoci, di dare il giusto risalto a questo dramma avvenuto il 14 aprile scorso nel nord-est della Nigeria. Un’ondata di solidarietà che ha creato un movimento di protesta trasversale che ha accomunato gli Stati Uniti alla Cina, la Francia alla Russia. Una mobilitazione generale che ha dato luogo ad una petizione, firmata da quasi 1 milione di persone, su Charge.org e lanciato un appello sui social network con un hashtag #bringbackourgirls che in pochi giorni ha fatto il giro del mondo, superando il milione di retweet, grazie anche ai “cinguettii” di personalità quali il Papa, la first lady americana Michelle Obama, Malala Yousafza, la ragazza pachistana vittima del terrorismo, e tanti altri. Purtroppo, tutto questo clamore mediatico, per ora, non ha portato risultati concreti per la liberazione delle giovani nigeriane, ma forse può essere un primo passo importante per svegliare le coscienze e lottare per la dignità umana. Iniziando, però, non dalla geograficamente lontana Nigeria, ma dalle strade che tutti quotidianamente percorriamo assistendo inermi, quasi del tutto assuefatti, allo sfruttamento di tantissime donne nigeriane, albanesi, rumene… costrette a vendere il proprio corpo e subire violenze indicibili. Da tutta questa indignazione per il rapimento delle studentesse potrebbero nascere iniziative concrete anche per le centinaia di migliaia di donne, spesso giovanissime, cui la criminalità, e la nostra indifferenza, ha rubato e ruba quotidianamente la dignità e le costringe a una vita di violenze, torture, umiliazioni, bestialità. Di questo ne abbiamo parlato con Giovanni Ramonda, Responsabile generale dell’associazione “Comunità Papa Giovanni XXIII”, che da anni porta avanti la lotta per sconfiggere la piaga della schiavitù di giovani donne.
Partiamo dalla forte reazione mediatica internazionale che c’è stata per il rapimento delle studentesse nigeriane. Secondo lei perché questa reazione?
“Da una parte c’è un senso di solidarietà, di giustizia, di difesa della dignità di queste giovani ragazze. Molti si sentono emotivamente coinvolti pensando se fossero in questa situazione i loro figli. Questo movimento ha, dunque, aspetti positivi. C’è però una specie di schizofrenia se si pensa alle migliaia e migliaia di ragazze altrettanto giovani che ormai da decenni vengono su dall’Africa come nuove schiave. Vengono portate nei nostri paesi perché qui c’è una grande domanda. È un paradosso. Mentre per le rapite, nascoste chissà dove, si può fare qualcosa ma non molto, su tutto l’altro fenomeno, che è di un numero incredibilmente più ampio, si potrebbe fare molto”.
In effetti, se parliamo di numeri, il salvataggio delle studentesse nigeriane sembra una goccia d’acqua in un mare di sfruttamento e violenza. Ma è possibile fare un paragone?
“Non è assolutamente paragonabile. Negli ultimi 30-40 anni parliamo di centinaia di migliaia di persone. Numericamente, ripeto, non è veramente paragonabile e poi si tratta di situazioni diverse. Mentre in Nigeria ci sono fanatici islamici, qui c’è una tratta, gruppi criminali che si incrociano, costruiscono alleanze tra nigeriani, italiani, albanesi e rumeni. È un fenomeno complesso che la polizia conosce bene. Finché non si agisce sulla domanda saranno sempre numeri in aumento. Cambia la merce, come la definiscono loro, ma la richiesta è sempre alta”.
Cosa si può fare e in che modo si può contrastare questa piaga?
“Sia eliminando questa turpe domanda, questa mercificazione dei corpi delle ragazze, ma anche con adeguate risposte politiche. Anziché prevedere la legalizzazione di questa tratta, ne prevedano un contrasto rigoroso. Ribadisco, in questa vicenda c’è come una schizofrenia. Di fronte a episodi eclatanti ci si muove, mentre di fronte a scelte storiche, in cui veramente si potrebbe incidere, non si fa niente. Anzi ci sono molti che vorrebbero legiferare la legalizzazione di questa nuova tratta. Invece potremmo liberarle tutte e fermare la schiavitù di queste migliaia di ragazze”.
Tornando alla vicenda delle studentesse rapite, questa grande mobilitazione internazionale è sicuramente un segnale incoraggiante, ma può rappresentare una svolta?
“Certo, se non rimane un momento occasionale sulla spinta dell’emotività popolare, ma smuove davvero le coscienze. Se riesce a scuotere tutta la dimensione culturale del Paese e riesce a creare proposte concrete per eliminare questo fenomeno e liberare le ragazze. Perché la dignità di queste donne, spesso bambine, non deve essere ridotta a una merce.”