Di Daminao Beltrame
Non sono esattamente attestati di stima quelli che i media americani riservano all’Europa in questi giorni di elezioni. Il “New York Times” ha messo in guardia dall’orda di estremisti di destra e sinistra che presto si aggiudicheranno scranni a Bruxelles e a Strasburgo, sottolineando la presenza tra loro anche di personaggi antisemiti come Adam Bartos, un candidato della Repubblica Ceca, protagonista nei mesi scorsi d’inaccettabili esternazioni. Il “Wall Street Journal” ha pubblicato proprio in questi giorni un intervento molto duro sulla crisi ucraina denunciando l’inconsistenza della posizione europea che ha partorito sanzioni risibili contro Mosca, frustrando le speranze di democrazia e modernizzazione di un popolo, quello ucraino, imbrigliato per anni in un sordo sistema “cleptocratico”. Molti altri giornali e programmi d’informazione televisiva Usa hanno semplicemente sepolto il voto Ue nella pagina delle notizie in breve. Per una valutazione di queste elezioni dal punto di vista americano e dell’amministrazione Obama, il Sir ha parlato con David Cameron, ordinario di scienze politiche all’Università di Yale, direttore della Facoltà di “European Studies” e da decenni attento osservatore del cammino d’integrazione del Vecchio Continente.
Professor Cameron, l’amministrazione Obama teme che l’irrobustimento del fronte populista possa paralizzare la fragile ripresa economica europea?
“Tradizionalmente le elezioni europee tendono sempre a dar sfogo alle pulsioni e ai voti di pancia, sia pure in questo caso segnalano un disagio più grave di altri momenti storici. Certamente avere più partiti populisti e radicali, di destra e di sinistra, vorrà dire più gazzarra nel Parlamento europeo. In quanto a una minore dinamicità delle politiche economiche europee a causa di queste forze oppositive sarei più cauto. Per ora credo che i partiti tradizionali manterranno il controllo della situazione e starà a loro agire con decisione e tempestività. A mio avviso, il Partito popolare e i Socialisti continueranno a essere gli interlocutori principali della nostra amministrazione”.
Quali altre conseguenze ritiene possa avere questa tornata elettorale?
“Un elemento importante da considerare è che se partiti come quello Popolare e quello Socialista prevarranno con numeri molto risicati, questi risultati insoddisfacenti si tradurranno in un indebolimento, e non di poco conto, a livello nazionale. È come se, in qualche misura, perdessero parte della loro legittimità. Questo è un vero grattacapo per loro, ma di riflesso è negativo anche per l’America. Governi azzoppati, incapaci di far fronte a rebus come la dilagante disoccupazione non sarebbero una buona notizia per Washington. Segnalerebbero che la bonaccia dell’economia europea potrebbe proseguire ancora a lungo”.
Passando al fronte delle crisi internazionali, prospetta maggiori difficoltà di cooperazione qualora movimenti radicali acquisissero un ruolo di primo piano?
“Non credo che il quadro cambierà di molto. Già oggi la situazione non è delle più semplici. E non perché l’Europa non abbia un ministro degli Esteri, come spesso si sente dire. Bensì per la comprensibile ragione che i 28 Stati dell’Unione hanno tutti posizioni diverse, per motivi storici, geografici, economici e di convenienza del momento. Sedersi a un tavolo e mettere tutti d’accordo è un’impresa ciclopica”.
Come valuta la posizione assunta dall’Unione europea sulla crisi ucraina?
“Naturalmente è stata troppo fiacca, ma bisogna ricordare che il dossier ucraino è molto più delicato per l’Europa che per l’America. Per l’Ue qualsiasi mossa risulta più difficile alla luce degli accordi economici di vari Stati europei con la Russia per il gas. Ma le misure prese contro la Russia appaiono piuttosto blande. Il che ci riporta al punto di prima: su crisi come quella ucraina, Paesi come la Germania e la Polonia hanno posizioni che, per una serie di motivi, non possono collimare. La frustrazione dei politici e dei diplomatici americani deriva spesso da questo”.