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Un’intoccabile concretezza

Di Paolo Bustaffa

Pensare in grande: una frase fatta, un luogo comune, un inutile appesantimento del “pensare” che in ogni caso deve essere “grande”?
L’appello corre tra le righe delle notizie e dei commenti di questi giorni su tutti i media.
Attraversa la cronaca politica, la cronaca nera, la cronaca economica, la cronaca internazionale, la cronaca ecclesiale.
Maestri del “pensare in grande” spuntano da ogni angolo e i loro messaggi sono rivolti a tutti gli ambiti dell’esperienza della persona e della comunità.
Dunque siamo invitati a “pensare in grande”.
Forse basterebbe pensare e restituire al pensiero il significato autentico, che entra in contatto con la coscienza, per toglierlo dalla astrattezza e dall’inconsistenza.
In realtà il pensiero è l’atto più concreto che l’uomo possa compiere.
Difficile spiegarlo ma in un momento di crisi intellettuale e culturale, che ha origine nell’eclissi della coscienza, toccherebbe ai cristiani confermare la concretezza del pensiero perché la loro fede e la loro vita si fondano su un sentirsi pensati da sempre da Qualcuno. Un Qualcuno che ha trasformato e trasforma ogni suo pensiero in volti, in gesti, in presenze.
Viene alla mente l’immagine del bimbo israeliano che usciva dalla scuola e danzava sulla strada, sollevando polvere e ancor più stupore nei passanti, quando il rabbino accennava al dire e al pensare di Dio perché, lui ragazzino, vedeva in questo dire e in questo pensare la realtà e la bellezza del creato, la realtà e la bellezza dell’uomo.
Ai bordi della cronaca il pensare prende spazio, non nonostante la cronaca ma grazie alla cronaca, perché sono le notizie nel loro torrentizio irrompere nella giornata di ogni persona a richiamare e stimolare la responsabilità del pensare.
Matt Browne, analista presso l’American Progess dove è impegnato per la promozione di reti internazionali che guardano al futuro, riflettendo sulla leadership politica, non solo italiana, non ha dubbi al proposito: solo un “pensare in grande” può aiutare l’umanità a rimettersi in cammino sulla strada della pace, della giustizia, della solidarietà.
È un buon segno ma sul primato del pensare – senza l’aggiunta “in grande” – occorre riconoscere il “pensare” che appartiene alla gente, appartiene al popolo, appartiene alle persone semplici che vivono le loro giornate con onestà personale, con senso di responsabilità sociale, con un realismo che inquieta ma non scoraggia.
Il pensiero è dono e responsabilità per tutti, non solo per poche élites.
Stando a bordi della cronaca ci si può rendere conto di quanto sia irrinunciabile questo pensare, di quanto sia importante ricordare che la fatica del pensare non è una fatica in più ma è la fatica che motiva e sostiene tutte le altre fatiche dell’umanità.
Occorre rispondere a quanti, in nome del fare e dell’agire, sostengono la “inutilità” del pensare.
Questa spiegazione è un’impresa difficile per tutti, anche per i media.
Eppure l’uscita dalla crisi, dallo stagno, dalla palude – luoghi che la cronaca doverosamente racconta – sarà possibile solo se si colmerà lo squilibrio tra le informazioni e i pensieri.
Molto numerosi sono gli informati ma sono altrettanti numerosi i pensanti?
In un contesto mediatico dove la velocità della notizia si confronta, spesso aspramente, con la lentezza della riflessione, i cristiani, per primi ma non da soli, sono chiamati a riscoprire la concretezza del pensiero, a comunicare le coordinate della sua sorgente.
Ai bordi della cronaca, e non ci sarebbero i bordi se non ci fosse la cronaca, è importante continuare questo esercizio della coscienza perché il pensiero si traduca in un atto di amore, in un atto di speranza, in un’intoccabile concretezza.