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“Tacciano le armi in Siria: la guerra distrugge, uccide, impoverisce popoli e Paesi”

Da Zenit di Salvatore Cernunzio

È un dolore straziante per il Papa vedere che in un anno poco è cambiato per la crisi siriana. Anzi, forse la situazione è peggiorata dal momento che, alla rassegnazione per una soluzione che sembra non arrivare, è subentrato un male ancora più grave: “l’indifferenza”.

“C’è il rischio di abituarsi” alla crisi in Siria, scrive Francesco nel suo Messaggio ai partecipanti all’Incontro tra gli organismi caritativi cattolici operanti nel paese, promosso oggi da “Cor Unum”. C’è il rischio di tenersi aggiornati con i giornali o i propri tablet degli eventi nella regione mediorientale, trascurando il fatto che, in tre anni, questi stessi eventi hanno portato alla morte di oltre 160mila persone e hanno distrutto altre sei milioni di vite umane, rifugiate chissà dove.

C’è il rischio “di dimenticare le vittime quotidiane, le indicibili sofferenze, le migliaia di profughi, tra cui anziani e bambini, che patiscono e a volte muoiono per la fame e le malattie causate dalla guerra”, scrive il Papa. E, dalle righe del messaggio, urla: “Questa indifferenza fa male! Un’altra volta dobbiamo ripetere il nome della malattia che ci fa tanto male oggi nel mondo: la globalizzazione dell’indifferenza”.

La sensibilità di Bergoglio verso questa parte del mondo si è acuita ulteriormente dopo il suo recente viaggio in Israele, Palestina e Giordania. “Anch’io porto negli occhi e nel cuore il Medio Oriente, dopo il pellegrinaggio dei giorni scorsi in Terra Santa”, scrive infatti. E ringrazia tutti gli organismi di carità cattolici per il contributo dato alle popolazioni della Siria e dei Paesi vicini.

Tuttavia, il Pontefice osserva: “Un anno fa ci siamo riuniti per ribadire l’impegno della Chiesa in questa crisi e per lanciare insieme un appello per la pace in Siria”. Dodici mesi dopo ci si incontra nuovamente per “tracciare un bilancio del lavoro svolto” e “per rinnovare la volontà di proseguire su questa strada, con una collaborazione ancora più stretta”. Ma di una soluzione per la crisi siriana ancora si fatica a parlare.

Certo, non è colpa né responsabilità degli organismi caritativi cattolici, la cui “azione di pace” e “opera di assistenza umanitaria” nel contesto siriano è anzi “espressione fedele dell’amore di Dio per i suoi figli che si trovano nell’oppressione e nell’angoscia”. “Dio ascolta il loro grido, conosce le loro sofferenze e vuole liberarli; e a Lui voi prestate le vostre mani e le vostre capacità”, sottolinea il Santo Padre.

Ognuno però è chiamato in causa per dare, secondo le proprie possibilità, un contributo affinché queste sofferenze possano terminare. E chi già è attivo, deve duplicare i suoi sforzi. Questa riunione – evidenzia il Pontefice – “costituisce un’occasione propizia per individuare opportune forme di collaborazione stabile, nel dialogo tra i diversi soggetti, allo scopo di organizzare sempre meglio i vostri sforzi per sostenere le Chiese locali e tutte le vittime della guerra, senza distinzioni etniche, religiose o sociali”.

Il vibrante appello di Francesco va quindi “alle coscienze dei protagonisti del conflitto, delle istituzioni mondiali e dell’opinione pubblica”. “Tutti – afferma – siamo consapevoli che il futuro dell’umanità si costruisce con la pace e non con la guerra: la guerra distrugge, uccide, impoverisce popoli e Paesi”.

A tutte le parti il Papa chiede, dunque, che “guardando al bene comune, consentano subito l’opera di assistenza umanitaria e quanto prima facciano tacere le armi e si impegnino a negoziare”. Al primo posto – rimarca – c’è “il bene della Siria, di tutti i suoi abitanti, anche di quelli che purtroppo hanno dovuto rifugiarsi altrove e che hanno il diritto di ritornare al più presto in patria”.

Sono bagnate di lacrime, infine, le ultime parole del Santo Padre per “le care comunità cristiane, volto di una Chiesa che soffre e spera”. “La loro sopravvivenza in tutto il Medio Oriente – conclude – è una profonda preoccupazione della Chiesa universale: il Cristianesimo deve poter continuare a vivere là dove sono le sue origini”.

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