Di Michela Mosconi
Sfuggire alla spirale di odio e vendetta col perdono. La vita di Zijo Ribić, 29 anni, oggi è un esempio di come si possa non odiare i carnefici che venti anni fa gli hanno sterminato la famiglia: padre, madre e sette tra fratelli e sorelle. Siamo in Bosnia Erzegovina, l’anno è il 1992. Zijo ha sette anni e il ricordo di quel giorno è tanto lucido quanto crudele. Fa male il salto in quel passato che lo ha visto, bambino felice, giocare nella neve a piedi nudi con la sorella Zlatija. “È per questo che noi rom non ci ammaliamo mai”, scherza. Zijo viene dal villaggio di Skočić, vicino a Zvornik e Srebrenica, luoghi interessati dalla prima ondata di pulizia etnica. Qualche sera fa era a Cesena per partecipare a un incontro organizzato dal Centro per la Pace “Ernesto Balducci”.
I rom bosniaci. In Bosnia Erzegovina i rom rappresentano il gruppo etnico più piccolo. Prima della guerra la popolazione rom era stimata intorno alle 40-50 mila persone. Nel periodo del conflitto vennero trattati in modo brutale e la maggior parte di questi fu soggetta a pulizia etnica. Per quasi nessuno dei crimini compiuti contro la comunità rom sono state svolte indagini. Zijo è stato il primo rom a portare in tribunale la causa del suo popolo. Ha trascinato davanti alla giustizia i responsabili dello sterminio della sua famiglia, non senza difficoltà. “All’inizio avevo paura – racconta – non volevo andare a Belgrado da solo. Poi ho deciso di testimoniare. Chi avrebbe potuto dire la verità se io non fossi andato?”. Una battaglia giudiziaria iniziata nel 2005 quando viene in contatto con la sociologa Natasha Kandić, attivista per la giustizia, già vincitrice del premio Langer nel 2000, e fondatrice di un centro per accertare i crimini avvenuti durante la guerra. “Grazie a lei ho deciso di raccontare la mia storia e denunciare gli assassini della mia famiglia e della gente del mio villaggio”. Nel 2009 iniziano le indagini presso l’Alta Corte di Belgrado e prende avvio il processo contro gli autori materiali di quella strage.
Ricordi della strage. “Poco tempo prima dell’arrivo dei paramilitari armati – racconta – un vicino di casa serbo ci aveva consigliato di scappare. Mio padre ci portò via, ma quando alla radio sentì che la guerra in Bosnia non sarebbe mai scoppiata decidemmo di tornare. Quella stessa notte, nel luglio del 1992, truppe paramilitari serbe armate sono entrate nel mio villaggio. Ci hanno prelevato dalle case, hanno cercato oro e denaro. Hanno violentato mia sorella. C’erano poi dei camion che ci aspettavano per portarci via. Ci hanno fatto scendere in un campo, hanno ucciso tutti. Io mi sono salvato per miracolo. Sono stato ferito ad un braccio e alla schiena, ma Dio ha voluto che rimanessi vivo. Non ho urlato e mi sono finto morto”. Il piccolo Zijo scappa dall’infermo come può, incontra due militari dell’esercito popolare jugoslavo (Jna) di etnia serba che lo salvano portandolo nel pronto soccorso più vicino.
Il perdono. Cresciuto tra un orfanotrofio e l’altro prima in Montenegro poi a Tuzla, Zijo non matura sentimenti di odio né di vendetta. “Sono arrivato a perdonare. Senza perdono una persona non può vivere una vita normale – spiega -. Molti miei amici di Srebrenica mi chiedono come possa farlo. Io rispondo sempre che ho perdonato per tornare a vivere in pace. A loro dico anche che perdonare non significa dimenticare. Anzi, bisogna fare memoria di quello che è successo, bisogna ricordare, cercare la verità e poi perdonare. Nella vita è importante sapere che si può andare avanti, a volte con grande sofferenza ma si può andare avanti”. Non ha perso la speranza il giovane rom bosniaco, oggi cuoco in un albergo a Tuzla. Non l’ha persa neanche quando, in Montenegro, gli comunicano la notizia del suo imminente trasferimento in una struttura in Bosnia Erzegovina. “Non volevo tornare. Quando sono venuto a saperlo sono scappato. Ero terrorizzato dall’idea di tornare in Bosnia ma poi ho deciso di rischiare. Un uomo deve avere una speranza, credere in qualcosa, ha bisogno di aspirazioni, energia, obiettivi. Puoi raggiungere qualsiasi cosa se hai degli obiettivi nella vita”.
La giustizia. Il processo contro gli assassini della famiglia di Zijo (per ora sono stati ritrovati solo i resti del padre e della madre in fosse comuni lontane 100 km l’una dall’altra) si è concluso nel febbraio del 2013 con la condanna di sette membri delle forze paramilitari con a capo Simo Bogdanovic. “Nel complesso – conclude Zijo – sono stati dati 73 anni di galera e pene detentive fino a 20 anni ai responsabili, oltre che del massacro di Skočić, anche di altri numerosi crimini di guerra contro i civili nei villaggi attorno alla città di Zvornik”.
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