Il romanzo “Il colore prima del blu”
dal 25 LUGLIO sarà anche in edizione cartacea.
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A Davide ed Elisa, due sogni
nel “noi uno” di mamma e papà.
Alla “Barca dei sogni”,
con cui siete arrivati.
Ai sogni, i vostri.
Dov’è il vostro tesoro,
sarà anche il vostro cuore.
Gesù
‹‹Alice non era ancora felice
Voleva ancora di più
Il ragazzo dagli occhi di perla le disse
Cos’altro potrei fare
Guarda più in un alto e arriva lassù
E portami un pezzo di blu
Poi lui la guardò, le disse va bene
Tornerò con quello che vuoi tu.››
(Alice e il blu, Dario Faini)
Premessa
Immagino una barca che si è portata via tutti i sogni di un paese. La chiamo la “Barca dei sogni”. Metafora di una nazione, di un tempo, di giovani senza desideri. Mi alzo la mattina presto: non accade mai nulla, eppure è lo spazio riservato a chi spera ancora. Le altre ore si riempiono di parole, vane. La sera la dedico ai sogni e li affido alla luna, come si faceva in epoche lontane. Non si può andare a dormire senza un sogno e non ci si può svegliare senza la speranza che si realizzi. Da questa esperienza nasce la storia di Michele, un ragazzo senza sogni. È lui a raccontarla, nel tempo presente, anche se è un tempo passato.
Immagino un mare con un colore speciale, un colore che chiamo “il colore prima del blu”. Non tutti, però, riescono a riconoscere le varie sfumature dei colori. Michele scoprirà che il blu è il colore della felicità, mentre il colore prima del blu è lo stadio precedente, quello del desiderio, dell’attesa: la condizione umana.
Scoprendo il colore prima del blu, scoprirà il suo sogno, ma resterà lì, sospeso, nella speranza di realizzarlo. È qui che metto la parola “fine” perché più che un sogno realizzato è un sogno da realizzare che mi fa alzare presto la mattina.
Ci sono poi gli altri personaggi, semplici ed umili abitanti di un borgo antico, da salvare. Occorrerebbe restituire ad ognuno il proprio sogno, ma Michele fa di meglio: accenna un timido abbraccio, quello di cui tutti noi, in fondo, abbiamo bisogno; un tenero abbraccio d’amore.
PUNTATA 1
‹‹Tutti hanno un sogno, anche tu dovresti averne uno,›› dice il signor Alfredo.
Resto zitto, e gli passo un bicchiere. Lo solleva, e con il braccio teso lo mette controluce per vedere se è sporco, poi lo ripone nello scaffale. Gli passo un altro bicchiere, lo strofina con un tovagliolo per asciugarlo. Ripetiamo questo gesto per venticinque volte di fila; è il numero di bicchieri che può contenere il cesto.
‹‹Secondo me, un giorno, è venuta una barca qui in paese e si è portata via tutti i nostri sogni. Per questo il ristorante l’ho chiamato “La barca dei sogni”.›› Resto in silenzio.
‹‹È un’idea stupida, vero? Ma intanto vedi che anche tu non hai sogni?›› continua lui.
Il signor Alfredo mi dovrà insegnare il mestiere di cameriere. È stata mia madre a mandarmi da lui. Sono in prova per una settimana e oggi scade il tempo. È la prima volta che provo a fare un lavoro. Non credo che questo sarà quello vero, quello che farò da grande.
‹‹Il lavoro ti farà maturare, Michele,›› mi ha detto mia madre quando mi ha mandato qui.
‹‹Accompagnami!›› le ho chiesto.
‹‹Sei abbastanza grande per sbrigartela da solo,›› mi ha risposto girandosi verso l’altro lato del letto e facendo la mossa di scacciare una mosca. Così ora sono qui ad allungare i bicchieri puliti ad Alfredo e mi sto chiedendo quante volte ancora dovrò fare questa operazione mai fatta prima.
‹‹Resta un po’ seduto qui in giardino con me,›› mi disse mio padre. ‹‹Questa notte vado all’Isola e farò la foto. Il prossimo anno porterò anche te.››
È stato quasi un anno fa. Ora mio padre non c’è più. Ci guarda dall’alto, come dice Emma la fornaia. È difficile credere all’invisibile, ma io ci credo: mi dà una possibilità in più. Così immagino mio padre che sorvola la città mentre vado in bici. Ci parlo anche, e provo a cogliere i segni della sua presenza nel battito delle ali di una farfalla bianca, nella carezza sul viso del vento mattutino, nel cinguettio di un passero.
‹‹Ora non posso,›› gli risposi. Il mattino seguente, quando mi svegliai, mia madre era alla porta, c’era gente in strada. Lei indossava una sottoveste. I suoi capelli erano raccolti a cipolla, tenuti su da una matita. Si copriva il volto con la mano destra, poi si piegò in avanti e raccolse le braccia al ventre. Il Maresciallo disse: ‹‹Signora, la accompagno io…›› Mia madre si girò di scatto e mi vide assonnato e confuso. Mi abbracciò. Non disse nulla. Fuggii via e mi sedetti nel luogo in cui si era presentata l’ultima occasione per stare con lui. ‹‹Resta un po’ seduto qui in giardino con me,›› mi disse mio padre.
‹‹Un padre sa perdonare tutto,›› mi disse il signor Alfredo il giorno in cui mi presentai da lui a cercare lavoro. Il signor Alfredo è un lontano parente di mio padre. Lo chiamo “signor Alfredo” perché qui in paese è così che i ragazzini chiamano le persone di una certa età.
‹‹Non c’è nulla da perdonare,›› aggiunse dopo un po’ quando io stavo per andarmene. ‹‹E non c’è nulla da rimpiangere,›› terminò.
È un uomo di poche parole il signor Alfredo. Si tocca i baffi, prende il suo pacchetto di sigarette, gli dà due colpi sul tavolino e ne tira fuori una. Prima di accenderla passano alcuni minuti. Se la tiene in bocca, poi la riprende fra le mani. È un rito, un gesto che lo fa rilassare, ed è in questi momenti che dice le cose importanti, quelle che contano, che non vanno più ripetute. Tutte le altre parole sono un di più, un qualcosa di cui si può fare a meno. Le parole possono dire tutto e niente, dipende da chi le dice, quando le dice e come le dice. “Resta un po’ seduto qui in giardino con me” non è una frase qualunque, se a pronunciarla è tuo padre che morirà di lì a poco.
Il signor Alfredo chiude la porta del ristorante. È silenzioso e temo che il periodo di prova sia andato male. Non ho il coraggio di fare domande. Cerco di rallentare i movimenti, impiego tempo per aprire il lucchetto della bici e attendo una sua parola. Dopo un ultimo sguardo verso di lui che fuma appoggiato a un muro, decido di mettermi in sella. Saluto, ma il signor Alfredo getta la sigaretta, si avvicina e mi dice: ‹‹Ci vediamo domani.››
‹‹Grazie,›› rispondo sorpreso sbilanciandomi.
‹‹Tieni! Questa è la paga della settimana.››
‹‹Non doveva signor Alfredo,›› dico guardando i soldi che mi ha messo in mano.
Mia madre sarà orgogliosa di me, ma felice no, penso. Da quando è morto papà, si rigira nel letto mattina e sera. Le cucino io, altrimenti non mangia.
‹‹Il tempo la guarirà,›› mi dice Emma la fornaia, ‹‹tieni: un pezzo di pizza per te.››
Le allungo una banconota e saldo il conto di un mese. Per darmi il resto si sporge in avanti e mi sembra di affondare nel suo flaccido ma immenso seno. I suoi movimenti fanno dondolare una medaglietta appesa al collo.
‹‹È la Madonna Nera,›› mi dice.
Arrossisco e non rispondo, salgo in bici. Con la pizza in mano decido di fare un giro per il paese. Non riesco a distogliere i miei pensieri dall’immagine di Emma mentre mi porge il resto. A cacciarla via è una farfalla bianca sul mio braccio e l’idea che papà sia qui con me.
Nicola De Toma
Intrigante e poetico racconto. Lascia capire che quella barca, dalle tue parti, non è ancora passata. Bravo Alessandro. Sono curioso di leggere il seguito.
anonimo
Bello lo stile, piacevole e profondo il senso, comprero il libro!