Di Alberto Campoleoni
L’hanno preso. E sbattuto immediatamente in prima pagina. Si sa, è il destino dei “mostri” a loro volta travolti dalla macchina mostruosa dei media. Parliamo del presunto assassino di Yara Gambirasio. Un uomo, che per quanto possa essere ritenuto colpevole di un delitto atroce, mostruoso, forse, ha diritto di essere trattato con la dignità e il rispetto che si deve a ogni persona. Magari non se lo merita – si può pensare -, ma ne ha diritto.
Ecco, vengono questi pensieri rincorrendo la cronaca di una giornata convulsa come quella che ha visto ammanettare questo muratore 44enne che per gli inquirenti è il colpevole di un delitto che ha colpito profondissimamente l’opinione pubblica e che si agita da anni come un incubo sulla Bergamasca e non solo. C’è la “prova suprema”, quella del Dna, a supportare gli investigatori – ma non va dimenticato che non è automatico il riconoscimento del Dna con l’accertamento delle responsabilità, e ci sono fior di processi a ricordarlo – i quali hanno fatto davvero un grande e meraviglioso lavoro, per risolvere un caso terribile.
Si capiscono i sentimenti di sollievo, di liberazione, alla cattura di “ignoto 1”, che anche in questa denominazione inquietava e inquieta le coscienze. Eppure vale la pena di riflettere sulla corsa scatenatasi subito intorno alla notizia dell’arresto, le foto prese da Facebook e rilanciate sui siti, nome, cognome, parenti… riflettori accesi, implacabili, Twitter che impazza… Addirittura un ministro che dichiara – imprudentemente – in un lancio d’agenzia: “Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio”. Presunto assassino, ministro, presunto! Non è garantismo d’accatto, è questione di fondo, di quel rispetto che è segno di civiltà e che distingue la nostra sete di giustizia dalla voglia di vendetta.
La vicenda di Yara, peraltro, ha insegnato a tutti – grazie anche alla testimonianza straordinaria di una famiglia e di un paese intero – proprio che la ricerca di giustizia non si confonde con la vendetta. Che il dolore straziante non acceca l’umanità, non fa dimenticare il vincolo che lega la comunità, non porta necessariamente all’homo homini lupus. E allora non può bastare l’ansia dello scoop per dimenticarsi di questo. La frenesia di arrivare primi sulla notizia, con tutto e di più, non può far dimenticare che ci sono persone, famiglie, bambini, travolti da una nuova tragedia e da un nuovo dolore. Immenso.
Si vada avanti nella ricerca della verità. Gli investigatori, tenaci e silenziosi, hanno segnato un punto fondamentale. Decisivo, probabilmente. È ovvio, che, insieme, andrà avanti il lavoro di chi informa, di chi scrive e gira filmati televisivi, di chi si dedica a quell’opera fondamentale di far conoscere e di raccontare. Senza sconti, ma auspicabilmente senza la frenesia accecante delle prime ore, con misura.