Di Daniele Rocchi
Da Aleppo, a Falluja fino a Mosul passando per Tikrit e Samarra, lambendo Baghdad, la città curda di Kirkuk e la capitale del Kurdistan iracheno, Erbil. In mezzo oleodotti, pozzi e raffinerie di petrolio. È questo, in sintesi, il territorio, che si estende per almeno 500 chilometri, del califfato che gli jihadisti dello Stato islamico in Iraq e nel Levante (Isil) vogliono creare a cavallo tra Siria e Iraq, fondandolo sulle regole dell’Islam radicale. Una zona ricca di petrolio e abitata in prevalenza da arabi sunniti ma con presenza anche di diverse minoranze etniche e religiose. Con la conquista di Mosul e l’avanzata verso la capitale irachena, l’Isil si affranca dall’immagine che aveva di una costola di Al Qaeda e s’impone all’attenzione degli analisti e della comunità internazionale come il nuovo centro gravitazionale intorno al quale orbita la galassia jihadista. I confini del Medio Oriente, tracciati nel 1916 dal diplomatico inglese Mark Sykes e dal suo collega francese, François George-Picot, non resistono che sulla carta. Dopo essersi assicurato il controllo di ampie zone della Siria, avendo come roccaforte la città di Raqqa, con l’incursione in territorio iracheno l’Isil ha spezzato di fatto l’Iraq in tre parti: un’area a Nord sotto controllo del governo regionale curdo (Krg); un’area centrale controllata proprio dall’Isil e un’area a Sud, in cui si trova la capitale Baghdad, ancora nella mani del governo centrale dello sciita Nouri al-Maliki. Ma che cos’è l’Isil, quando nasce e come agisce questo movimento che sta cambiando le sorti e la geografia del Medio Oriente? Da chi è composto? Da chi è finanziato? Chi è il suo capo?
Movimento radicale islamico. Formatosi nei primi anni della guerra statunitense contro Saddam Hussein (2003), l’Isil, acronimo di Stato islamico in Iraq e nel Levante, prende le mosse dallo Stato islamico in Iraq (Isi), organizzazione irachena legata ad Al Qaeda. Il suo capo è Abu Bakr al Baghdadi, meglio noto come “lo sceicco invisibile”, per la sua abitudine a coprirsi il volto con una maschera anche in presenza dei suoi più fidati collaboratori. Della sua ascesa nell’universo jihadista si comincia a parlare nel 2010. Di lui si conosce la crudeltà e che non riconosce l’autorità del capo di Al Qaeda, Ayman al Zawahiri. Fu al Baghdadi, inoltre, nel 2013 ad annunciare la fusione con il Fronte al Nusra, gruppo radicale attivo in Siria contro il regime di Assad che poi si sfilò dall’accordo preferendo restare autonoma. Non ci sono stime certe sul numero di miliziani che controlla. Secondo Charles Lister, ricercatore del Brookings Doha Center, l’Isil dovrebbe contare su 6mila miliziani, soprattutto iracheni, in Iraq e su circa 7mila in Siria, tra di loro anche stranieri. Per la sua formidabile catena di controllo, per il suo efficiente sistema di trasmissione delle informazioni e di reclutamento sul territorio, l’Isil più che un gruppo terroristico viene definito una vera e propria milizia. Proprio grazie a questa capacità militare, i suoi militanti hanno potuto conquistare Falluja prima e Mosul poi, l’intera provincia di Nineveh e alcune zone di quelle di Kirkuk e Salahuddin, dove oggi sventolano le bandiere nere islamiste con la scritta “Non c’è altro Dio al di fuori di Allah”. Non si hanno notizie certe sui suoi “sponsor” e finanziatori. Gli analisti ritengono che i principali donatori siano singoli Stati presenti nel Golfo, Arabia saudita tra questi. L’organizzazione si finanzia anche con contrabbando e sequestri e non ultimo con fondi provenienti da riserve di gas controllate come quelle di Deir Ezzor, in Siria. Particolarmente inquietante potrebbe rivelarsi la notizia che l’Isis avrebbe sottratto oltre 400 milioni di dollari alla sede di Mosul della Banca centrale. Una cifra che le permetterebbe di arruolare decine di migliaia di combattenti.
Come l’Isil abbia potuto conquistare Mosul senza combattere o quasi – migliaia di poliziotti e militari dell’esercito regolare hanno abbandonato senza preavviso la città prima del suo arrivo – lo si può comprendere alla luce della politica settaria del primo ministro iracheno, lo sciita Nouri al-Maliki. Quest’ultimo ha evitato ogni accordo politico e di governo con la minoranza sunnita polarizzando di conseguenza la società irachena. Ciò ha fatto sì che una parte della popolazione sunnita nel Nord-Ovest del Paese sposasse la causa dell’Isil. Sostenuto dall’ayatollah Ali al-Sistani, principale autorità religiosa sciita del Paese, al-Maliki in questi giorni sta lanciando appelli alla popolazione sciita perché si arruoli e combatta contro l’Isil, confermando la sua scelta di non includere la componente sunnita nel nuovo governo. Cosa non gradita al presidente Usa Obama che alla Cnn, il 19 giugno, ha confermato che non ci sarà un nuovo impegno diretto delle forze armate americane in Iraq. “La risposta migliore alla minaccia dell’Isis – per Obama – è dare la possibilità alle forze locali di rispondere”. Dunque solo 300 consiglieri militari in campo. Ma prima i leader iracheni devono mettere da parte le divisioni e fare fronte all’Isis con un processo politico inclusivo che vada a sanare la divisione tra sunniti, sciiti e curdi”. Una visione che Obama spera di condividere anche con l’Iran del nuovo corso di Hassan Rouhani. “Se l’Iran si presenta come forza militare in difesa degli sciiti, probabilmente peggiorerebbe la situazione – ha detto Obama – ci sono profonde differenze con l’Iran. Una guerra in Iraq non converrebbe all’economia iraniana e probabilmente a Teheran ne sono consapevoli”.