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Meriam ancora sotto interrogatorio della polizia sudanese. Quando la vera libertà?

Di Salvatore Cernunzio

Prosegue il drammatico “tira e molla” tra la polizia sudanese e Meriam Yahya Ibrahim. Sono ormai mesi che il mondo assiste con il fiato sospeso alla vicenda della 27enne cristiana condannata a morte per apostasia da un tribunale di Khartum per aver sposato un uomo cristiano e anche a 100 frustate per adulterio.

Prima la prigionia con il figlioletto Martin, 21 mesi, e il parto in cella e in catene della secondogenita Maya; poi, dopo una mobilitazione mondiale, la liberazione il 23 giugno con l’annullamento della pena capitale, infine il nuovo fermo ieri all’aroporto di Khartum, mentre stava per imbarcarsi verso gli Stati Uniti insieme al marito Daniel e al suo avvocato Mohanad Mustafa.

Proprio il legale aveva diffuso ieri la notizia, suscitando lo sgomento generale. Oggi invece ha chiarito meglio la vicenda, spiegando che Meriam non è in stato di arresto dopo il fermo, ma sotto interrogatorio da parte della polizia sudanese a causa di problemi legati al suo passaporto.

La situazione però continua a rimanere confusa. La giovane madre viene interrogata per verificare l’autenticità del documento che le è stato rilasciato dalle autorità del Sud Sudan, sul quale sarebbe presente un visto americano. Fonti locali riferiscono che l’ambasciata di Juba nella capitale sudanese ha confermato che la donna avesse diritto al documento concessole, in virtù della cittadinanza sudsudanese del marito e dei figli.

Tuttavia, per le autorità sudanesi la donna potrebbe essere accusata formalmente di aver falsificato i suoi documenti, in quanto sul passaporto compare il suo nome da cristiana e non da musulmana. Una “violazione criminale”, questa, tanto che il Ministro degli Esteri (lo stesso che aveva smentito la notizia di una prima liberazione n.d.a.) ha convocato gli ambasciatori americano e sud-sudanese. Meriam rischia quindi di essere accusata di un crimine punibile fino a sette anni di prigione, secondo il codice penale. E provoca solo orrore l’idea che la donna possa tornare dietro le sbarre.

Finora non è giunta alcuna conferma ufficiale. Intanto si raccolgono voci dalle diverse parti del mondo. Da un lato, l’avvocato Mustafa che dice: “Chiunque dica che è stata rilasciata, mente. Ora bisogna evidenziare la sua difficile situazione”. Dall’altro, il dipartimento di Stato americano che tranquillizza gli animi per bocca della sua portavoce, Marie Harf, la quale riferisce che le autorità statunitensi sono state informate dal Sudan che “la famiglia è stata fermata temporaneamente in aeroporto per alcune ore da parte del governo per domande su questioni relative al loro viaggio e ai documenti”. “Il governo ci ha assicurato la loro sicurezza”, ha detto la Harf, e che intendono “assicurarsi” che Meriam, il marito e i figli “possano presto lasciare il Sudan”.

Il marito della cristiana, Daniel Wani, si è detto invece “molto preoccupato” dalla situazione. La situazione presente, come pure quella futura. Sperando nella definitiva libertà della 27enne, si cerca infatti un luogo sicuro dove potrà vivere insieme alla sua famiglia, specie dopo le folli dichiarazioni di Al Samani Al Hadi Mohamed Abdullah, il suo presunto “fratello maggiore”, come egli stesso si è dichiarato in un’intervista alla Cnn.

Il sedicente parente smentiva nel colloquio qualsiasi dichiarazione della giovane, a cominciare dal nome che, a suo dire, non sarebbe Meriam ma Abrar Al Hadi. Affermava poi che la donna si è convertita dall’islam al cristianesimo trasgredendo la sharia, “fonte della legge in Sudan”. La ragazza, insieme a diversi testimoni, aveva sostenuto di essere sempre stata cristiana, cresciuta in questa fede dalla madre ortodossa, dal momento che il padre musulmano le aveva abbandonate quando Meriam aveva solo sei anni.

“I casi sono due – diceva Al Samani Al Hadi alla Cnn – o lei si pente, torna alla religione islamica, rientra nell’abbraccio della nostra famiglia e allora noi siamo la sua famiglia e lei è la nostra. Oppure rifiuta e deve essere impiccata”. Nonostante il marito Daniel dichiarasse di non averlo mai visto, l’uomo continuava a lamentare il fatto che la sua famiglia fosse “devastata”.

“Se lei muore noi abbiamo applicato la parola di Dio”, aggiungeva nell’intervista, “è in base a questa responsabilità che saremo giudicati l’ultimo giorno. E quel giorno sarà molto più difficile di quelli che stiamo vivendo oggi. Non è possibile accettare compromessi”.

Sembra quasi che non si riesca a porre fine alle persecuzioni per questa giovane cristiana. Fortunatamente dal mondo, oltre alle campagne internazionali (la più famosa e partecipata, quella lanciata dal quotidiano Avvenire #meriamdevevivere), giungono messaggi di solidarietà e dichiarazioni di accoglienza.

In Italia, ad esempio, l’onorevole Eugenia Roccella ha lanciato un vigoroso appello “al nostro Ministro degli Esteri e al Presidente del Consiglio” affinché il Paese intervenga, come ha chiesto anche la presidente di Italians for Darfur, Antonella Napoli, che ha avuto modo di parlare con il marito di Meriam. “Il nostro paese – ha insistito il ministro – si dichiari disponibile ad accogliere questa donna coraggiosa e la sua famiglia, riconoscendo loro lo status di rifugiati. La tradizione solidale e democratica italiana si faccia valere a livello internazionale per difendere i diritti dei più deboli, a partire da quello alla libertà religiosa e di pensiero”.

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