Di Daniele Rocchi Sarajevo
Danica scende veloce le scale e abbraccia le amiche che l’aspettano nel cortile. Pacche sulle spalle e sorrisi. “È andata bene!”, dice con un sospiro di sollievo. Saranno insieme anche a settembre alla ripresa del nuovo anno scolastico. Sono giorni pieni di ansia quelli che i 1.300 gli alunni del Centro scolastico cattolico “San Giuseppe” di Sarajevo stanno vivendo. Nelle classi è il tempo di “matura”, l’esame di fine anno, da cui usciranno i promossi e i bocciati. Nei corridoi del centro è un pullulare di gente, insegnanti, alunni, genitori. Qualcuno rilegge nervosamente gli ultimi appunti, altri come Divan sono rassegnati, “ormai non è più tempo di studiare. Quel che è fatto è fatto”, dice con un mezzo sorriso che non fa presagire nulla di buono per l’imminente interrogazione. Danica, 18 anni, sogna di andare in Germania ma il suo desiderio è quello di restare a Sarajevo per costruirsi una famiglia, un futuro sereno. Le chiediamo di spiegare il significato di questo, difficile e forse inconciliabile, “sognare di andare e desiderare di restare”. La risposta è secca: “Sognare non è faticoso, posso farlo in ogni istante. Il desiderio di restare, invece, lo devi coltivare, anche studiando, con gli amici, parlando, superando tante barriere che qui sono etniche e religiose e riaffiorano sempre. Non è facile vivere qui, per questo lo devi desiderare. Ecco, è un desiderio che costa fatica”.
A Sarajevo i desideri e i sogni di tanti giovani si scontrano con una dura realtà. Le alluvioni dello scorso maggio hanno messo in ginocchio la città e l’intera Bosnia, colpendo 4 milioni di persone e rendendo inagibili più di 100mila case. Ci vorranno anni perché il Paese recuperi da questa devastazione. Da sola la Bosnia non potrà farcela. Divan, 18 anni anche lui, non ama molto studiare ma è consapevole che l’istruzione sia la strada principale per ottenere un lavoro. Con i suoi amici gioca a calcio, al collo porta una sciarpa coi colori della Bosnia, ascolta musica, ama passeggiare lungo Ferhadija, una delle vie più frequentate della città, si diverte, ma poi racconta anche che “qui manca il lavoro e non ci sono grosse prospettive future”. Gli domando se ha un sogno nel cassetto, allora ride, guarda i suoi amici, che già lo prendono in giro per la risposta che tutti sanno, “diventare un campione di calcio” salvo poi aggiungere “ma ormai è troppo tardi”. Un “troppo tardi” forse per il calcio, ma per il resto? Divan elude la domanda con un “vedremo”, ma capisco che forse la sua mente è già rivolta all’esame finale che deve sostenere. Divan e Danica, a scuola, con i loro sogni e desideri, comuni a tutti i giovani della loro età, e non solo bosniaci. Con un futuro da progettare ed una vita da costruirsi.
Essere giovani a Sarajevo significa avere la strada sbarrata anche da barriere etniche e religiose che pure le inondazioni, con tutta la loro furia, sembravano aver lavato. Vivere a Sarajevo vuol dire fare i conti, ogni giorno, con il livore di una città che ha subito, a causa di queste barriere, violenza, morte e distruzione. Come ti ricordano gli innumerevoli cimiteri a vista che la costellano. Non c’è famiglia, a Sarajevo, che non abbia avuto vittime o feriti durante la guerra e, in modo particolare, durante l’assedio (5 aprile 1992 – 29 febbraio 1996). Danica e Divan non erano ancora nati. Sarebbero venuti alla luce poco dopo ma questo non ha impedito loro di crescere ascoltando il racconto di chi, come i loro familiari e amici più grandi, quei lunghi mesi li hanno vissuti sulla propria pelle, senza acqua, senza cibo, sotto il tiro continuo dei cecchini serbi appostati sulle alture circostanti, attenti al grido “Pazite, Snajper!” (“attenzione, cecchino!”). “Non ti abitui mai a quei racconti – ammette Danica -. E anche se oggi se ne parla meno, il ricordo torna forte quando cammini per la città e vedi ancora i fori dei proiettili sulle facciate dei palazzi o quando vai a fare la spesa a Markale, il mercato dove avvennero due stragi. E ti domandi perché…”. “Un passato così non potrà mai essere cancellato”, interviene Divan, che non nasconde un certo fastidio dovuto al fatto che, “quando si parla di noi, si parla solo della guerra e poco della nostra voglia di rinascita. Questa è la terra dove sono le mie radici e a cui appartengo, ma voglio guardare avanti e non trascinarmi dietro gli errori del passato”. È sera a Sarajevo, le luci si accendono e con esse anche quelle della Vijeænica, la storica biblioteca della città, distrutta e da poco riportata al suo antico splendore. Molti a Sarajevo la indicano come il segno della rinascita. A noi piace pensare invece che questo segno siano giovani come Danica e Divan che ancora sognano e desiderano…
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