Ai bordi della cronaca, soprattutto quando è intrisa di nero, si è bruscamente sollecitati a interrogarsi sul significato della vita e, di conseguenza, sullo spessore umano della nostra cultura e della nostra società.
Non è facile ma è un esercizio doveroso di fronte alle vittime di una violenza sia materiale che immateriale, sia mediaticamente visibile che mediaticamente invisibile.
Una forza distruttrice che travolge tutti e tutto, annienta ogni resistenza: come un uragano lascia dietro di sé smarrimento e domande.
Tuttavia, oltre ai volti indelebili delle persone la cui vita è stata spezzata, “qualcosa” riaffiora dopo il passaggio furibondo del male.
Un “qualcosa” che viene dalle parole di una madre che davanti alla bara del figlio ucciso invita al perdono, un “qualcosa” che viene dalle parole di un parroco che chiede preghiera e silenzio non per rimuovere la tragedia di una ragazza uccisa da un bruto e neppure per affievolire la richiesta di verità e giustizia ma per condividere un dolore indicibile e per interrogarsi alla soglia del mistero del male.
Ma c’è anche un “qualcosa” d’altro che viene dai gesti semplici e quotidiani di tanti sconosciuti che tessono fili di umanità in una società in cui la sicurezza e la paura, l’egoismo e l’altruismo, la non speranza e la speranza, l’offesa e il rispetto, si contendono il tempo e lo spazio. Si contendono il cuore e la mente di ogni uomo e di ogni donna.
Ai bordi della cronaca si assiste a questo scontro, a volte rumoroso a volte silenzioso ma sempre provocatore di un richiamo alla coscienza perché scelga tra la rassegnazione, l’indignazione e la ribellione.
Le notizie sulle tragedie, dopo l’impatto emotivo, interrogano e inquietano sullo spessore di umanità che una persona e una società possiedono.
Cosa sta accadendo? La risposta peggiore è dire che si tratta di fatti sempre accaduti e che oggi sono amplificati a dismisura dai media. In realtà, respinte con decisione le violazioni dei diritti di ogni persona raccontata in una notizia, si dovrebbero forse ringraziare i media per il loro portare il male al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica.
Allo stesso centro gli stessi media dovrebbero portare anche il bene e in questa non innocente ritrosia a farlo si ripropone un antico difetto professionale che impedisce il raggiungimento della completezza, non solo tecnica, dell’informazione.
Accade così che nei media il lato non umano di una società continua a occupare spazi fuori misura.
Il pessimismo si diffonde e si arresta solo di fronte a quanti lo contrastano con il farsi testimoni e maestri della cultura del dono e della gratuità.
A bordi e al centro della cronaca queste persone non si vedono nei media ma esistono nella società. Sono presenti sul terreno delle relazioni con i loro piccoli gesti e in molti progetti e percorsi educativi.
Basterebbe guardare alle affollate attività estive per i ragazzi, promosse in queste settimane da parrocchie e associazioni, per rendersi conto di una presenza che è “ribelle per amore”.
Il nostro Paese si salverà soprattutto per questa rete di gratuità che è una ribellione al pessimismo e alla rassegnazione, che è un’alta scuola di umanità, che è un master esperienziale sul valore del dono: dono del tempo, dono di sé stessi, dono della speranza, dono della responsabilità…
Ai bordi della cronaca – quella indiretta e quella in diretta – il dolore e lo sconcerto per la distruzione di vite e la lacerazione di affetti rimangono forti ma perché tante sofferenze non finiscano nella spirale del pessimismo o dell’emotività effimera occorre un supplemento di cultura del dono e della gratuità. Una cultura che appartiene più a un popolo che a élite politiche, culturali e mediatiche.