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Se gli stranieri migliorano le nazionali degli altri…

Di Giovanni Tonelli

Dichiaro senza remore la prestigiosa fonte di questo articolo. È l’album delle figurine Panini dedicato ai campionati del mondo di calcio. Ora che l’Italia è tornata anzitempo a casa, non c’è mancata davvero l’occasione per concentrarci sulle altre nazionali. E così scopriamo che la falange teutonica, che forse si porterà a casa la coppa, è composta, fra gli altri, da Jérôme Boateng, di padre ghanese; Mesut Özil, turco; Sami Khedira, di origini tunisine; Shkodran Mustafi, albanese; e infine Lukas Podolski e Miroslav Klose, polacchi. Un bell’aggregato di colori, specie per una nazione che ha dato origine alla pazzia del secolo scorso, legata al mito della razza ariana.
C’è poi la squadra dei “puri” elvetici, che non più di qualche mese fa ha votato un referendum per tenere fuori gli stranieri, ed è composta da giocatori con origini bosniache, macedoni, turche, ivoriane, capoverdiane, colombiane, croate, italiane, oltre che da un kosovaro-albanese che ha segnato tre gol all’Honduras…
Basta scorrere i cognomi: Djourou, Senderos, Inler, Behrami, Rodriguez, Gelson Fernandes, Mehmedi, Seferovic, Drmic, Dzemaili, Shaqiri…
Solo quattro titolari hanno origini svizzere, gli altri sono tutti figli di immigrati. Se gli svizzeri fossero solo conseguenti con ciò che votano…
Per non parlare della Francia, dove, da oltre dieci anni, trovare un giocatore che non sia di colore o di origine magrebina diventa un’impresa e dove le colonne si chiamano Paul Pogba e Karim Benzema, certamente oggi giovani ricchi francesi, ma con i genitori che nel cuore “respirano” ancora l’Africa.
Una domanda d’obbligo, banale banale, per i milioni di tifosi felici che li celebrano: se gli stranieri sono utili a migliorare il livello sportivo delle squadre nazionali, chi l’ha detto che non possano giovare anche allo sviluppo sociale, economico e culturale? Sono buoni solo con i piedi?
E se emergono con tanta forza in tanti settori non è forse perché hanno più “fame” di tanti nostri ragazzi, che per anni hanno girato le spalle quando la lotta si è fatta più dura?
Indubbiamente sport e cultura sono grandi motori d’integrazione. Per come calcia un giocatore o suona un musicista, non importa il colore della pelle, né la sua lingua o religione. Ho visto gli algerini controllare la palla come i brasiliani e ragazze del Congo cantare come l’islandese Björk. Sarà perché, prima di essere tanti aggettivi, sono solo persone.

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