Una messa per la pace e la riconciliazione delle due Coree nella cattedrale di Myeong-dong a Seoul. Sarà questo uno dei momenti forti del viaggio di Papa Francesco in Corea. Un paese nel cuore dell’Asia, attraversato da una guerra fredda che divide in due dal 1953 la penisola. “Penso che ci siano poche speranze. Non c’è la possibilità alla stato attuale dal punto di vista politico di arrivare a una riconciliazione, facendo leva sulla volontà di entrambe le nazioni”. Antonio Fiori non è un tipo che gira attorno alle idee che esprime. È docente di Politica e istituzioni della Corea e dell’Asia Orientale presso l’Università di Bologna. Ha da poco partecipato ad un forum dedicato proprio alla situazione della penisola coreana e ai rapporti con la Corea del Nord, organizzato dall’Istituto affari internazionali e dall’Ambasciata della Repubblica di Corea in Italia. Ed è di nuovo in partenza per Seoul.
Quali possibilità allora ci sono perché si muova qualche cosa in questa direzione?
“L’unica possibilità che esiste in questo momento sulla penisola coreana è il collasso del regime che controlla la Corea del Nord. Collasso che non è ipotizzabile anche perché sarebbe il risultato di una serie di conseguenze poco auspicabili, come una guerra tra le due parti, che porterebbe con se anche l’intervento di altre nazioni, oppure un attacco chirurgico da parte degli Stati Uniti. Quindi, come studiosi, accogliamo la preghiera del Pontefice per una riunificazione della penisola, ma ci crediamo tutti molto poco”.
La Chiesa locale dice di auspicare che la Corea del Nord invii almeno un gruppo di cattolici nordcoreani per la visita del Papa in Corea del Sud.
“In Corea del Nord ufficialmente non ci sono cattolici, perché fondamentalmente viene professato un ateismo di fondo. Quindi mi chiedo come fanno ad inviare una delegazione religiosa se la religione non è professata e non può essere professata all’interno del Paese. Sarebbe un controsenso”.
Eppure le comunità cattoliche anche se sotterranee esistono.
“Il problema sostanziale è che stiamo parlando di gente che non è libera di professare la religione in senso integrale. Quello che noi sappiamo è che le condizioni di coloro che professano una religione è estremamente limitata e sottoposta ad un controllo serrato. Esiste un dipartimento di Stato per il Safe security che espleta funzioni di controllo estremamente capillari su tutti quegli organismi che potrebbero contribuire a minare le basi del regime. Ed è noto che in molti paesi la religione è stato un agente essenziale per il cambiamento del regime politico in atto. Motivo per cui per il regime di Pyongyang, la religione è un pericolo perché potrebbe generare possibili sacche di resistenza e cambiamento”.
Qualche esempio?
“Il caso Kenneth Bae, cittadino coreo-americano che è attualmente detenuto nelle carceri della Corea del Nord. Era un tour operator che organizzava tour in Corea del Nord con il permesso ovviamente del regime ed è stato sbattuto in galera perché in possesso di alcune copie della Bibbia”.
È ipotizzabile che per accreditarsi presso la Santa Sede, la Corea del Nord invii una delegazione finta?
“Assolutamente lo escluderei. Una cosa del genere mi troverebbe spiazzato come analista. Ma se inviasse una delegazione vera, mi troverebbe ugualmente spiazzato. Una cosa invece ipotizzabile è che si sia lavorato e ragionato su una visita del Papa in territorio nordcoreano. Per dire: vengo da voi non per lanciare un messaggio apostolico ma per farmi latore di un messaggio di pace e di riconciliazione, per essere un ponte tra le due Coree”.
Ma sarebbe una possibilità ancora reale a questo punto?
“Le diplomazie non lavorano mai totalmente in superficie e probabilmente non arriveranno mai a pubblicare una simile possibilità posto che su questa possibilità si stia lavorando. Ricordo però un precedente: nel 1971 Kissinger andò in Cina. Si assentò un giorno dal Pakistan dove si trovava per una conferenza, prese un aereo e andò in Cina per preparare la strada alla visita di Nixon a Pechino. Prendere contatti con la diplomazia nordcoreana non è impossibile. La diplomazia nordcoreana lavora in maniera molto alacre. Da questo punto di vista, non pensiamo alla Corea del Nord come ad un Paese terzomondista”.
Come è vista a Pyongyang la visita del Papa in Corea del Sud?
“Non mi risulta che ci sia stata alcuna presa di posizione. Leggo quotidianamente il loro organo di stampa che viene pubblicato nella maggior parte solo in coreano. E non ho letto nulla a riguardo della visita del pontefice. Sono molto enigmatici. Probabilmente se Papa Francesco dovesse spendere parole per la riconciliazione della penisola, loro commenteranno”.
Se dunque la situazione è così critica, quale potrebbe essere per il Papa un risultato buono da portare a casa?
“Dal mio punto di vista chiunque e qualunque personaggio pubblico lavori alla possibilità di dare un futuro di unificazione ad una penisola così massacrata, è un personaggio che merita di essere seguito. Se il pontefice lanciasse anche solo l’augurio a tutta la Corea per un futuro di riconciliazione e tendesse la mano della comunità cattolica per un aiuto verso questa riconciliazione, sarebbe un passo molto importante. È in questo senso un segnale positivo il fatto che il pontefice abbia scelto la Corea del Sud per un suo viaggio in Asia ed abbia in qualche maniera tralasciato altre possibili mete. Certo, il Papa ha accettato per tante ragioni. Va in Corea per rendere omaggio ai martiri coreani, per incontrare i giovani, per visitare la diocesi di Daegeon che sta svolgendo un lavoro straordinario a sostegno dei poveri… Ma non nego come speranza che il pontefice abbia scelto la Corea anche per dare un messaggio di pace in un angolo di mondo martoriato”.