di Michela Mosconi
A pochi giorni dalla commemorazione delle vittime del genocidio di Srebrenica, il 13 luglio scorso, una sentenza emessa dal Tribunale Internazionale dell’Aja ha riconosciuto la responsabilità dell’Olanda per la morte di centinaia di civili bosniaci musulmani a Srebrenica. I giudici hanno accolto, per la prima volta, il ricorso, pur parziale, delle ‘madri di Srebrenica’, associazione dei familiari delle vittime di quel massacro, ritenendo i caschi blu dell’Onu, schierati a protezione dell’enclave musulmana, colpevoli di non averli difesi. Il giudice preposto, Larissa Elwin, ha parlato della responsabilità dello Stato olandese per la “perdita subita dai familiari degli uomini deportati dai serbi di Bosnia dalla base del contingente olandese a Potocari nel pomeriggio del 13 luglio 1995”. La sentenza fa preciso riferimento a quella data, quando, cioè, il battaglione olandese, Dutchbat, “non avrebbe dovuto lasciare che gli uomini si allontanassero dal compound ma tener conto della possibilità che gli uomini sarebbero stati vittime di un genocidio”. Ma la decisione desta più di una perplessità.
13 luglio 1995, i fatti. Srebrenica viene dichiarata dalle Nazioni Unite zona protetta nell’aprile del 1993. Centinaia di caschi blu olandesi non riescono, però, ad evitare il massacro. L’undici luglio del 1995, circa 25mila sfollati lasciano la cittadina e si avviano verso Potocari, a pochi chilometri, dove è collocata la base olandese. Il colonnello “orange” Thom Karremans aveva infatti promesso che lì sarebbero stati al sicuro dall’avanzata dei militari e paramilitari serbo-bosniaci guidati da Ratko Mladic. Nello stesso momento circa 15mila uomini cercano una via di fuga nei boschi per raggiungere la zona libera di Tuzla (in pochissimi si salveranno). I primi 5000 vengono fatti entrare nel compound che ospita i caschi blu olandesi. Gli altri, rimasti fuori, si accampano nel prato antistante (dove oggi sorge il Memoriale alle vittime del genocidio). Per loro non v’è difesa di alcun tipo, sono completamente in balìa dei macellai che iniziano i primi rastrellamenti, i primi stupri, le prime esecuzioni di massa. Il 13 luglio i rastrellamenti dei 20mila all’aperto sono ormai terminati. Ma analoga sorte toccherà ai 5000 del compound ‘protetti’ dai caschi blu.
Una giustizia a metà. L’Olanda dovrà risarcire i familiari delle vittime per la morte di centinaia di innocenti ammassati dal suo quartier generale, cedendo così alle pressioni di Mladic che le voleva fuori, ma non per le ottomila vittime uccise intorno alla base o scappate nei boschi come sostenuto dall’accusa. “La sentenza rappresenta un passo avanti ma non molto convincente – dichiara al Sir Elvira Mujèiæ, giovane scrittrice bosniaca che in quei giorni drammatici ha perso il padre e lo zio – Le notizie che arrivano dal Tribunale dell’Aja sono sempre così: i primi dieci minuti sembra che sia successo qualcosa di meraviglioso, poi ti accorgi che per l’ennesima volta è una giustizia che zoppica”. Per lo scrittore e giornalista Luca Leone, che ha seguito da vicino la vicenda di Srebrenica, si tratta di una sentenza “superficiale e politica, che non fa in alcun modo giustizia. Erano tutti sotto la protezione dell’Onu e non solo quelli assiepati nel compound. Inoltre alcune delle vittime rastrellate e i loro familiari erano alle dipendenze dei caschi blu dell’Onu: interpreti, traduttori, personale logistico, a dimostrazione del fatto che i soldati olandesi agli ordini di Karremans abbandonarono completamente i civili musulmani alla mercé delle forze serbe. Infine, ci sono testimonianze di donne che hanno riferito come i caschi blu portassero fuori fisicamente le persone che si rifiutavano di uscire dal compound consegnandole agli assassini di Mladic. Anche di questo non è stato tenuto conto. L’unico lato positivo è che tutto ciò potrebbe avere un peso quando si arriverà a sentenza nei processi di Ratko Mladic e Radovan Karadzic”.
Speranza per il futuro. La giornalista di Sarajevo Azra Nuehefendic parla “di un verdetto storico anche se riguarda solo un gruppo di persone. Gli avvocati delle vittime hanno già annunciato che non si fermeranno qui perché tutto il territorio di Srebrenica era stato dichiarato zona protetta dalle Nazioni Unite. Sono piccoli passi ma importanti, come quello del settembre scorso quando la corte Suprema dichiarò colpevole l’Olanda nella causa aperta da un ex interprete dei caschi blu per la morte del padre, del fratello e di un altro uomo. Senza verità e giustizia non ci sarà mai una pace duratura. La sentenza va vista con occhi speranzosi per il futuro. Chi opera sotto la bandiera delle Nazioni Unite per proteggere la popolazione civile non potrà più essere esente da alcuna responsabilità”.
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