“Il giornalista non dove scrivere di sé ma di quello che lo circonda”.
Oggi trasgredirò questa regola, a cui tutti quelli che fanno questo mestiere dovrebbero attenersi.
Il 7 luglio la mia vita e il mio modo di vedere il mondo sono cambiati.
Ore 8:00, don Mimmo Zambito, parroco a San Gerlando nell’isola di Lampedusa, m’invia un sms “118 donne, 27 bambini, 209 uomini. Molo Favaloro”.
Nulla di strano, in questi giorni di sms ed email di questo tenore me ne arrivano parecchi, ma questa volta è diverso perché mi trovo a Lampedusa e perché al Molo Favaloro posso andare.
Arrivi e ti trovi davanti una distesa di uomini, donne e bambini seduti o sdraiati per terra, stanchi, affamati e assetati.
Alcuni hanno indosso pochi indumenti, altri hanno voluto indossare tre, quattro capi, tutti in una volta.
Alcuni degli uomini sono distrutti, dormono sotto il sole cocente di Lampedusa, altri cercano dell’acqua, prezioso liquido, che scarseggia al Molo Favaloro.
Suor Paola, giovane suora delle figlie di don Morinello, mi mette in mano un pacco pieno di palloncini e mi dice “andiamo dai bambini”.
E così comincia il mio incontro con Ciccio, Totò, Lillo, Nicuzzo e Giuiuzzu (li ho battezzati con i nomi della mia terra che, da quel momento è anche la loro) sono sporchi, puzzolenti di pipì, chi con addosso solo una maglietta e chi invece con i calzini bucati, ma tutti con un sorriso che ti disarma, che ti lascia senza fiato.
Innocenti protagonisti di una vita che, sin da piccoli li ha messi a dura prova, come tutti i bambini, si lasciano andare alla gioia quando suor Paola offre loro un cioccolatino – alcuni lo mettono in bocca con tutta la carta – o quando mi vedono gonfiare un palloncino colorato.
Inizialmente restii, poi lentamente cominciano a venirmi incontro e a tendere la mano. Occhi, sorrisi, mani e gesti che sono ancora dinanzi ai miei occhi.
Poco abbiamo potuto fare per loro, ma Valerio, Giuseppe, Marta, suor Paola, don Franco, don Giuseppe, don Rino, don Enzo, don Nino, con un bicchiere d’acqua, con una merendina, delle caramelle e del succo di frutta hanno cercato di rendere più umano il loro arrivo in terra italiana.
Pensavo che il mio contributo finisse lì, sul Molo, e invece, grazie al permesso fattoci avere dal comandante dei Carabinieri dell’isola, riesco insieme a suor Paola e a Marta ad entrare all’interno del Centro di prima accoglienza, riaperto per permettere a queste persone di potersi lavare e rifocillare per essere poi trasferite in altre destinazioni attraverso un ponte aereo.
Noi ci troviamo lì per distribuire indumenti per i bambini, ma portiamo anche intimo e assorbenti per le donne.
Incontro i bambini a cui avevo regalato i palloncini; Ciccio e Totò, i due gemellini, sono i primi che arrivano da noi insieme alla madre. D
iamo loro due paia di mutandine e due cambi abito, alle scarpe provvedono quelli del centro ma tocca a me trovare il numero corrispondente al loro piede, la mamma parla solo tigrino e quindi vado “alla fimminina” faccio alzare il piede e lo faccio combaciare con la suola. Dopo di loro arriva la bambina con gli occhi che ridono, mi saluta e mi rivolge qualche parola.
Le rispondo con un sorriso, a lei diamo un paio di pantaloni alla pescatora arancioni, una canotta con tutti i colori dell’arcobaleno e un paio di scarpe rosa.
Le donne ci guardano con occhi tristi, riusciamo a comprendere attraverso i gesti che alcune di loro necessitano di un cambio intimo, la mutandina del kit non è sufficiente, hanno le mestruazioni e nel sacchetto azzurro, in cui vi è una tuta, molto spesso di taglie enormi per questi esili corpi eritrei, un asciugamano, una canotta, sapone, dentifricio e spazzolino, non vengono contemplati gli assorbenti; ne abbiamo pochi pacchi a disposizione ne distribuiamo quattro-cinque a testa. Dopo tre ore di distribuzione terminiamo i vestiti per i bambini, a malincuore dobbiamo lasciare il centro, ci fanno anche capire che la nostra presenza lì non è più gradita, con il nostro umanizzare la distribuzione dei kit stiamo intralciando la normale vita del centro.
Suor Paola, Marta ed io lasciamo il centro.
Ritornata ad Agrigento, mi chiedo dove siano adesso Ciccio e Totò e se incontrerò mai la bambina con gli occhi che ridono.
Sarò sempre grata a chi mi ha permesso di fare questa esperienza, per poco tempo, grazie a lui, sono riuscita a far sentire benvenuti nel nostro Paese chi vi è giunto dopo fatica, sofferenza e dolore.