Non ci sono più i gruppi di una volta. La generazione dei ragazzi del muretto ha ceduto il posto alla generazione del telefonino, dove sono tutti insieme, sì, ma ciascuno impegnato a conversare sui social network con qualcuno che non è lì. O magari anche con l’amica due gradini più su, why not? Fanno un po’ impressione gli stormi di ragazzini che sembrano uguali a quelli di sempre, ma invece poi si vede che il senso di stare tutti insieme ha lasciato il posto a un insieme di individui. Ai tavolini dei bar, sui teli della spiaggia, sulle scalinate di città il costante e garrulo chiacchiericcio a volume non regolabile ha lasciato il posto a uno sferruzzare di pollici e allo sguardo vitreo fisso su un display che cinguetta. Il discorso sale di tono, nel senso del rumore, solo dopo aver provveduto a fluidificare l’atmosfera con abbondanti e miste libagioni, che come già sapevano i nostri padri latini, sciolgono la lingua e annebbiano i pensieri. Altrimenti, l’individualità sembra essere divenuta la cifra della comunicazione.
Un paio di esempi in tema vacanziero. In tempi nemmeno troppo lontani, l’arrivo di una comitiva di ragazzi in spiaggia come in montagna (non troppo alta però) era percepibile anche senza usare metodi da cacciatori Sioux alla ricerca del bisonte. L’annuale migrazione degli Gnu metropolitani si annunciava con la musica sparata dalle casse di una radio troppo voluminosa anche da portare a spalla. La musica, normalmente consistente in genere techno, era la sovrapposizione progressiva di loop della lunghezza di 1/2, 1, o 2 o più battute, generalmente seguendo numeri pari in cui la sezione delle percussioni è fondamentale. Traduzione: unz-unz-unz-unz. A palla. Per ore.
Oggi i nostri eroi si sistemano sui loro teli, tirano fuori le cuffiette (o le cuffie grosse che fanno tanto Usa) e denotano segni di vita e di ascolto musicale solo da brevi, ritmici cenni del capo o dell’indice. Il massimo della fruizione collettiva è allungare uno dei due auricolari al vicino. E le foto? Una volta c’erano le macchinette usa e getta. I più fortunati, al massimo, potevano avere un’ambitissima Polaroid, ma comunque bisognava stampare le foto e poi si facevano i “doppioni” per tutti. Tanto si era sempre in gruppo, o almeno in tre a certificare presenza, occupazione del luogo e appartenenza tribale partecipata. Oggi, nell’era digitale, impazza il selfie con il telefonino. Rigorosamente individuale. Che poi sarebbe l’autoscatto, come già autorevolmente ricordato, ma che, grazie all’opzione di “share” ha in più l’innegabile vantaggio di essere immediatamente condivisibile con una pletora di amici, follower e sconosciuti. Tutti soggetti cui gliene può importare di più o di meno del contenuto dell’istantanea, ma che si sentiranno giustificati e altrettanto invitati, a loro volta, a contraccambiare con analoga moneta.
Al di là della moltiplicazione dello spam in formato byte, il dramma però si esplicita nell’omologazione dei temi ivi rappresentati. Archiviate le labbra a becco d’oca, che pure conservano una vasta massa di seguaci soprattutto di genere femminile, accreditati studi sulle varie piattaforme social certificano un’inarrestabile tendenza. Pare infatti che le immagini più gettonate dalla comunità internautica per testimoniare lo stato vacanziero siano quelle che includono nello scatto le estremità inferiori dello scattante. Detto fuor di eufemismo: ci si fotografa i piedi. Abbronzati, smaltati, ustionati, panati di sabbia, adornati di anellini e cavigliere, ma sempre quelli. Ora, ai tempi in cui ci si poteva ancora interessare d’altro, le uniche foto di piedi delle nostre vacanze erano quelle del burlone di turno e di passaggio. Infischiandosene bellamente dello scoramento collettivo susseguente alla scoperta, alla richiesta di scattare la foto ricordo mirava in basso, certo dell’impunità fino allo sviluppo settembrino. Chi oggi volesse vantarsi di tali imprese in gioventù, può legittimamente farlo, rivendicando l’orgoglio del precursore.