“È importante riflettere su come stiamo trasmettendo i nostri valori alle nuove generazioni, su che tipo di mondo stiamo preparando per loro e, soprattutto, riflettere sulla necessità di trasmettere ai nostri giovani il dono della pace”. Non poteva esserci esordio migliore per Papa Francesco in Corea del Sud, Paese che porta dentro di sé la ferita ancora aperta della guerra con la Corea del Nord del 1950-1953. Nel suo primo discorso, dopo l’arrivo a Seoul, davanti al presidente della Repubblica, Park Geun-Hye, prima donna eletta a questa carica, e ai massimi rappresentanti dello Stato, il Pontefice ha ribadito tutto il suo amore e la sua cura per i giovani. E lo ha fatto mettendo il mondo della politica davanti alle sue responsabilità: “La ricerca della pace rappresenta una sfida anche per quelli che si dedicano al perseguimento del bene comune della famiglia umana attraverso il paziente lavoro diplomatico. La pace può essere conseguita attraverso l’ascolto silenzioso e il dialogo, piuttosto che per mezzo di accuse reciproche, critiche inutili e manifestazioni di forza”. Parole che risaltano maggiormente alla luce del lancio di tre missili a corto raggio, operato dalla Corea del Nord, appena 35 minuti prima dell’arrivo di Papa Francesco in Corea del Sud. Una risposta, forse, alle manovre militari congiunte tra forze sud-coreane e statunitensi in programma da lunedì prossimo. Lo sforzo da compiere, ha spiegato il Pontefice ai leader politici, è quello “di costruire un mondo migliore, più pacifico, giusto e prospero per i nostri figli” non solo “in termini economici ma anche umani”. Che nel vocabolario del Pontefice significa dare ascolto alla “voce di ogni membro della società” e mostrare “preoccupazione per i poveri, i deboli non solo soddisfacendo i loro bisogni immediati, ma anche da assisterli nella promozione umana e culturale”. Un impegno cui la Chiesa cattolica non intende sottrarsi avendo, tra gli altri, “il desiderio di contribuire alla formazione dei giovani e alla crescita di uno spirito di solidarietà con i poveri e gli svantaggiati”.
Gli adulti non rubino la speranza in un futuro migliore ai giovani che, se da una parte sono “vittime della crisi morale e spirituale” di questo tempo, dall’altra sono “portatori di speranza e di energie per il futuro”. L’incontro, o per meglio dire, l’alleanza tra le generazioni diventa così uno snodo centrale nel magistero di Francesco che, nel video messaggio trasmesso in Corea poco prima della sua partenza, aveva esortato la gioventù asiatica ad alzarsi e guardare a Cristo”. L’incontro tra gli anziani e i giovani è garanzia del cammino del popolo tanto caro alla Chiesa.
Concetti ripresi poco dopo, nella sede della Conferenza episcopale coreana (Cbck), per un incontro con i vescovi locali invitati ad “essere custodi della memoria e custodi della speranza”. Il Pontefice ha ricordato i martiri coreani che beatificherà il 16 agosto dai quali, ha affermato, “scaturisce un abbondante raccolto di grazia in questa terra”. Di questo raccolto fanno parte “parrocchie attive e movimenti ecclesiali, solidi programmi di catechesi, l’attenzione pastorale verso i giovani e nelle scuole cattoliche, nei seminari e nelle università”. Tuttavia “essere custodi della memoria” significa, per il Papa, “qualcosa di più che ricordare, significa anche trarne le risorse spirituali per affrontare con lungimiranza e determinazione le speranze, le promesse e le sfide del futuro. Essere custodi della memoria significa rendersi conto che la crescita viene da Dio. Guardare al passato senza ascoltare la chiamata di Dio alla conversione nel presente non ci aiuterà a proseguire il cammino; al contrario frenerà o addirittura arresterà il nostro progresso spirituale”. Ai vescovi coreani il Papa ha chiesto anche di essere “custodi della speranza, mantenendo viva la fiamma della santità e della carità fraterna e prendendosi cura dell’educazione dei giovani”, attraverso il sostegno dato alle università e alle scuole cattoliche di ogni grado. Un impegno ecclesiale che non può essere disgiunto dalla “sollecitudine per i poveri, per i rifugiati e i migranti”. Vivere e operare nel mezzo di una “società prospera ma sempre più secolarizzata e materialistica” come quella coreana pone sfide particolari alla testimonianza evangelica. La tentazione più grande, in tali circostanze, per gli operatori pastorali, è quella di “adottare uno stile di vita guidato più da criteri mondani di successo e persino di potere che dai criteri enunciati da Gesù nel Vangelo”. “Voglia il Cielo – sono state le ultime parole del Papa ai vescovi – che possiamo salvarci da quella mondanità spirituale e pastorale che soffoca lo Spirito”.