Di Emanuela Vinai
Di questi tempi il vero anticonformismo è non averne. Da marchio a fenomeno di moda, il tatuaggio ha attraversato brillantemente i secoli e anche i millenni, dato che chiari segni pare siano stati trovati persino sulla mummia di Similaun datata 3300 a.c. Oggi il tatuaggio è diffuso come e più degli occhiali da sole e basta uno sguardo per strada e in spiaggia per rendersi conto di appartenere a una minoranza. Già, perché secondo una rilevazione dello scorso anno, centoventi milioni di persone nel mondo hanno un tatuaggio, il 15 per cento degli adulti e il 30 per cento dei più giovani.
Il redde rationem della stagione estiva svela gli insospettabili e gratifica gli esibizionisti: il caldo e la versione balneare di noi stessi scoprono generose porzioni di pelle decorate di infiniti soggetti, secondo geometrie più o meno estese. Ci si tatua di tutto: animali, fiori, alieni, date, nomi, frasi. Queste ultime con errori (e orrori) inclusi nel prezzo, che la conoscenza dell’ortografia e/o di una lingua straniera non sono optional soggetti a verifica previa, anche per evidenti casi di corrispondenza biunivoca di inconsapevolezza funzionale tra tatuatore e tatuato.
I più ovvi portatori sani di tatuaggio sono i giocatori di calcio, ma anche sportivi di ogni disciplina che immortalano così la vittoria a imperitura memoria, vip in cerca d’autore, giovanotti muscolosi, fanciulle finto-trasgressive e signori/e che reclamano un’altra giovinezza senza la spesa di un’Harley. Il tatuaggio, in fondo, vuole sempre rappresentare qualcosa di chi lo fa: un ricordo, un’idea, una persona, un’aspirazione, un monito, a volte, banalmente, un gioco. Per approfittare di cinque minuti di popolarità c’è chi si è venduto centimetri di pelle a fini pubblicitari. Il caso è noto come tattoo advertising o skinvertising, sottotitolo: quando la pubblicità è per sempre.
Anche quando il sito internet di cui si fa menzione sul proprio corpo non esiste più da mesi. Data l’evoluzione della tecnologia, si attende analoga trovata con i QRcode. Per converso, c’è chi, per denunciare la mercificazione dell’uomo, si è fatto tatuare un codice a barre, con il risultato di risultare leggibile a tutti i miniscanner a infrarossi da supermercato: il problema resta la collocazione a scaffale.
Ma tralasciando le applicazioni da case history delle scuole di management, la verità è che il mantra diffuso è: ce l’hanno tutti. Ma se tutti ce l’hanno, dove finisce l’idea di fare qualcosa di anticonformista rispetto al sistema? L’omologazione passa anche attraverso il tribale a filo osso sacro o l’ideogramma sino-giapponese che probabilmente è un nome o un augurio, tipo forza e bellezza e armonia e amore, verosimilmente può soltanto essere uno scarabocchio irriconoscibile ai più e che suscita l’ilarità di chi potrebbe davvero decifrarlo. Senza contare che, grazie all’onnipresente faccialibro, nascono gruppi che accomunano condivisori di tatuaggi simili: chi non vorrebbe far parte dell’imperdibile community “tutti quelli che hanno un cammello tatuato”?
Ma in una società liquida dove tutto si disgrega rapidamente, dalle relazioni sentimentali e familiari alle riparazioni delle buche nelle strade della capitale, perché si sente il bisogno di ornarsi di un segno teoricamente indelebile e definitivo? Sì, certo, volendo ormai col laser si smacchia tutto, oppure si copre il tatuaggio primigenio con un qualcos’altro più grande e più colorato che mimetizzi la prima scelta, ma è il concetto alla base che resta invariato: perché si vuole un marchio potenzialmente destinato ad avvizzire insieme alle nostre rughe? Secondo i dermatologi, il numero dei pentiti sale inesorabile. Basta la fine dell’amore o una diversa opzione di carriera, un aforisma che non rappresenta più nulla o la volontà di cancellare un periodo della propria vita. Solo che non è così semplice, la pelle, come la memoria, non dimentica e servono lunghe e dolorose sedute per ripulire e ripartire da zero. Nella vita vera, il tasto “delete” non c’è mai quando servirebbe. E mica solo per i tatuaggi…

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