Non lascia dubbi la decapitazione a favore di telecamera del giornalista americano James Foley da parte di un miliziano dell’Isis. In quel gesto orrendo sono contenuti due messaggi.
Innanzitutto l’Occidente, anzi il mondo intero, sono avvisati: l’Isis proseguirà nella sua strategia del terrore che non esclude alcuna forma di violenza. “I jihadisti – ha denunciato il presidente americano Obama – hanno ucciso innocenti con violenza e codardia, torturato uomini, stuprato donne, ucciso migliaia di sciiti e sunniti, cristiani e minoranze religiose”. Di fronte a questo genocidio, programmato e puntigliosamente realizzato, nessuno può volgere lo sguardo altrove. Anche perché quanto sta accadendo dentro i confini del Califfato e nelle terre entrate nel mirino dei jihadisti offende l’umanità e rischia di farci precipitare in un secolo buio.
Il secondo messaggio riguarda direttamente chi fa comunicazione. Nessuno è al sicuro in quelle terre perché i signori della guerra sanno come usare l’informazione per terrorizzare il mondo. Non indietreggiare di un millimetro dinanzi alla violenza oscura dei jihadisti è la nostra responsabilità di comunicatori. È triste doverne prendere atto, ma nel nostro futuro di cronisti ci saranno tante pagine tristi da raccontare, di quella che Papa Francesco ha chiamato la “Terza Guerra Mondiale”.
La decapitazione del giornalista americano è una pagina di questa guerra moderna e, al tempo stesso, arcaica. Mai i giornalisti dovrebbero diventare i protagonisti dell’informazione, ma non ci stupisce l’odio dei jihadisti contro chi racconta al mondo le loro odiose violenze. Uccidere il giornalista ha un senso preciso: noi decapitiamo la vostra libertà di informare, pilastro della democrazia dei moderni.
A tutti noi il dovere di preservare e onorare quella libertà. Contro tutti i violenti e gli aggressori.
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