Il Consiglio europeo del 30 agosto, convocato per definire alcune cariche interne alla struttura dell’Unione e per affrontare le principali urgenze di politica estera, consegna punti fermi, dubbi legittimi che occorrerà dirimere e alcuni dossier ancora aperti.
I risultati acquisiti. In sede Ue si è finalmente sbloccato l’impasse sulla scelta del prossimo presidente del Consiglio europeo e dell’Alto rappresentante della politica estera e di sicurezza comune. Le cariche sono state rispettivamente affidate all’attuale premier polacco Donald Tusk, uomo di grande esperienza politica, tra gli eredi di Solidarnosc, e all’italiana Federica Mogherini, giovane ministro degli esteri. Il bilanciamento delle richieste tra gli Stati membri e tra i partiti europei sembra raggiunto; ulteriori “appetiti” potranno essere soddisfatti con la distribuzione di altre poltrone, da quella di presidente dell’Eurogruppo a quelle dei commissari europei. In questo senso la capacità di mediazione del presidente incaricato della Commissione, Jean-Claude Juncker, è una garanzia. Un’altra certezza che emerge dal summit di sabato scorso è la persistente preoccupazione tedesca e dei Paesi del nord Europa circa la salute dei conti pubblici di diversi Stati, soprattutto del sud e dell’est. Il pressing della cancelliera tedesca Angela Merkel sul presidente della Bce Mario Draghi e su Juncker, va esattamente in quella direzione. In realtà anche i “nordici” dell’Ue hanno inteso la necessità di sostenere concretamente la crescita, con investimenti pubblici e magari qualche ammorbidimento del rigore; ma la stabilità di Eurolandia dipende, fra l’altro, dalla salute dei bilanci statali e nessuno, da Berlino in su, intende mettere a rischio la moneta unica. Una terza certezza che resta dopo il vertice dei 28 capi di Stato e di governo è il timore dell’allargamento del conflitto ucraino. Le minacce di Putin a Kiev e il sostegno militare della Russia ai ribelli dell’est sono elementi acclarati. Dall’Ue si minacciano, con scarsa convinzione, ritorsioni che peraltro peserebbero sulla già debole economia continentale (forniture energetiche, import/export di prodotti agricoli, contratti di società europee con la Russia). Mosca potrebbe approfittare delle incertezze europee e internazionali per mettere definitivamente le mani sull’Ucraina o su parte del suo territorio.
Punti di domanda. Tra i dubbi rimasti sul tavolo c’è anzitutto la formazione della “squadra Juncker”. Perché il collegio dei commissari dovrà essere costituito sulla base delle competenze dei singoli candidati indicati dai governi degli Stati membri, rispettando al contempo una distribuzione delle deleghe che soddisfi ancora una volta le ambizioni degli Stati, il peso specifico tra le famiglie politiche (popolari, socialdemocratici, liberaldemocratici, conservatori…), la “parità di genere”. Si tratta di ostacoli non insormontabili, ma da non sottovalutare. Anche perché il Parlamento europeo – altra incognita – ha il potere di promuovere o bocciare i singoli aspiranti commissari o l’intero collegio: e Juncker non può permettersi uno scivolone a Strasburgo. Lo stesso Parlamento ha sollecitato Juncker a imboccare la strada della crescita e della flessibilità, e il presidente in pectore della Commissione ha tirato fuori dal cilindro un piano di investimenti da 300 miliardi: ora dovrà passare dalle enunciazioni ai fatti.
Economia, frontiere esterne. Sul fronte dei dossier aperti, delle emergenze che bussano alla porta di Bruxelles, il quadro è piuttosto complicato. Una lettura delle “Conclusioni” del Consiglio europeo segnala che al primo posto permane la crisi economica. I 28 hanno stabilito di rivedersi a inizio ottobre a Roma per un summit straordinario. Nel documento si legge: “Nonostante miglioramenti di rilievo delle condizioni dei mercati finanziari e gli sforzi strutturali compiuti dagli Stati, la situazione economica e occupazionale in Europa desta notevoli preoccupazioni. Nelle ultime settimane i dati economici hanno confermato che la ripresa, in particolare nella zona euro, è debole, l’inflazione straordinariamente bassa e la disoccupazione inaccettabilmente elevata”. Quindi il primo punto dell’agenda è l’economia. Ci sono poi le “minacce esterne” e gli innumerevoli conflitti attorno all’Ue: l’Ucraina, la Terra Santa, Iraq e Siria, senza trascurare la diffusione dell’ebola.
Questione di fiducia. Non mancano altri problemi interni: il Regno Unito appare sempre più distante da Bruxelles; la strada dei Balcani verso la democrazia europea non è lineare (la Bosnia Erzegovina prepara le elezioni in un clima interno di divisione e di povertà, il Kosovo è una pentola in ebollizione, la Serbia è un’incognita); la Scozia va alle urne per decidere se staccarsi da Londra e, quindi, dall’Unione; i separatisti catalani non rinunciano alle loro posizioni oltranziste. L’Unione oggi ha bisogno di misurare soprattutto la volontà condivisa di costruire una “casa comune” utile per tutti, che si fondi soprattutto sulla reciproca fiducia fra i governi, tra questi e i cittadini, tra gli Stati membri e l’Ue. La fiducia – in politica come in economia – è un elemento impalpabile, non misurabile, eppure essenziale. Senza non si va da alcuna parte, mentre con la fiducia nel motore si possono superare ostacoli che a prima vista appaiono invalicabili.