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Migliaia a Erbil per ottenere un passaporto

Di Daniele Rocchi

In fila sotto il sole con in mano i documenti indispensabili per ottenere il passaporto necessario per emigrare ovvero una lettera del Dipartimento per l’immigrazione e gli sfollati, un documento attestante lo stato civile, un certificato di nazionalità, un assegno pari a 25mila dinari iracheni, (21.50 dollari Usa) 3 foto formato tessera con sfondo bianco e un certificato di residenza. Accade a Erbil dove migliaia di cristiani, ma si pensa che tra loro ci siano anche yazidi, curdi, sunniti, sciiti e turcomanni, si sono accalcati, lo scorso 30 agosto, sotto l’Ufficio locale passaporti dopo che quest’ultimo ha stabilito che “il sabato di ogni settimana possono presentare domanda per l’ottenimento del passaporto coloro che, a partire dal 10 di giugno, hanno dovuto abbandonare le proprie case nel governatorato di Ninive per trovare rifugio nel Kurdistan iracheno di cui Erbil è capitale”. Secondo quanto riferisce il sito Baghdadhope, non è stato possibile accogliere tutte le richieste presentate e i nomi di chi otterrà il documento saranno comunicati via media. Non si conoscono i numeri precisi dei richiedenti ai quali vanno aggiunti quelli di coloro che non hanno potuto presentare la domanda.

Secondo Shawan Jamil, membro del comitato parrocchiale di supervisione per gli sfollati a Sulaymaniyya, citato da Baghdadhope, “molti cristiani non sono infatti in possesso di tutti i documenti necessari all’ottenimento del passaporto perché li hanno persi nella fuga, perché sono stati costretti ad abbandonare le proprie case nel cuore della notte e li hanno dimenticati o perché sono stati sequestrati loro dalle truppe dell’Is, lo Stato islamico, ai posti di blocco insieme al denaro e ad altri beni”. Numeri importanti che fanno temere, ogni giorno di più, per la scomparsa dei fedeli cristiani dalla regione irachena e che preoccupa non poco la Chiesa caldea guidata dal patriarca Mar Louis Raphael I Sako, che esorta la comunità internazionale ad aiutare i cristiani in emergenza affinché possano restare in Iraq. Appelli che sembrano essere caduti nel vuoto davanti all’orrore provocato dalla violenza delle milizie dell’Is che si aggiungono a quelle che la comunità cristiana locale subisce dal 2003 e 2004, quando furono attaccate chiese e luoghi di culto sia nella capitale Baghdad che a Mosul. Se in tutti questi anni, chiosa il sito Bagdhadhope, gli iracheni cristiani rimasti in patria sembrano aver seguito il proverbio arabo che recita “Non arrenderti. Rischieresti di farlo un’ora prima del miracolo”, quanto accade a Erbil racconta un’altra verità e richiama un altro proverbio arabo: “Se il tuo vicino ti odia, sposta la porta della tua casa”.

Ma spostare la porta di casa non può e non deve essere la soluzione. Ne è convinto il vescovo ausiliare di Bagdad, monsignor Shlemon Warduni, che al Sir dichiara senza mezzi termini: “È urgente fermare questi malviventi dell’Is, liberare le nostre città e tornare a vivere tranquilli nella nostre case. Servono forze internazionali a protezione delle minoranze colpite”. Ma non basta, vanno messe “spalle al muro” anche quelle nazioni che “aiutano questi criminali pena l’esclusione dalla comunità internazionale. Serve un’azione politica concreta ed efficace che tenga presente le necessità dei nostri popoli che ora sono sotto il sole, fra poco cominceranno le piogge. Ci sono donne che partoriscono in giardino, dove si è visto mai? Abbiamo bisogno di viveri, di vestiario, di scarpe. Sono fuggiti senza nulla addosso, sono poveri di tutto, anche di speranza. Vogliono emigrare. Manca la fiducia che tutto si possa sistemare. Ogni volta che qualcuno ha fatto rientro nella propria abitazione poco dopo è stato costretto a fuggire di nuovo. Le nostre case vengono saccheggiate e razziate senza che nessuno faccia nulla”. Mons. Warduni chiede un sussulto anche al mondo musulmano nel quale dice ci sono “tanti islamici equilibrati che confessano che questi integralisti non sono musulmani perché l’Islam è misericordia. Costoro che si macchiano di orrendi crimini, che seminano odio e divisione, che non hanno misericordia dei più piccoli e dei più deboli, come possono definirsi musulmani? Come definire questi che rapiscono donne e le vendono, mostrate in gabbie, nei mercati come schiave del sesso? Abbiamo notizie che molte di queste donne si sono tolte la vita pur di non sottostare alle violenze, altre hanno chiesto di essere bombardate per farla finita. Come si può in nome di Dio perpetrare tali nefandezze, lasciare morire di fame e di sete anziani e bambini, togliere le medicine ai malati. Questi miliziani sono una minaccia non solo per noi in Medio Oriente ma per tutto il mondo. Vanno fermati”. Una responsabilità che il nuovo governo iracheno deve affrontare “lavorando per la riconciliazione nazionale e la concordia, senza indugio, cercando quel coordinamento tra governo centrale e quello del Kurdistan che è mancato in occasione dell’avanzata dell’Is”.

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