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“Il disagio psichico dei migranti è aggravato dai Cie”

Di Patrizia Caiffa
Quando si parla di migranti è facile scatenare allarmismi, specie se legati a fatti di cronaca. È successo con i poliziotti e la Tbc, con il “caso Kabobo”, il ghanese che nel 2013 uccise tre persone a picconate a Milano, e di recente con un giovane africano di Jesi che minacciava i passanti con due machete. Ma quanto è diffuso e da cosa è provocato il disagio psichico tra i migranti? Lo abbiamo chiesto a Massimiliano Aragona, psichiatra nell’area sanitaria della Caritas di Roma e responsabile del Gruppo di lavoro sull’etnopsichiatria alla Simm (Società italiana medicina delle migrazioni).

Quali sono i problemi psichiatrici che incontrano i migranti e da cosa sono causati?

“Il primo problema è causato dalle condizioni di vita e dalle difficoltà nel processo di integrazione, che aumentano lo stress e i livelli di sofferenza. Poi c’è il problema dell’isolamento. La maggior parte non ha scelto di venire in Italia perché ha familiari in altri Paesi d’Europa. Ma a causa del Regolamento di Dublino non possono stare vicino alla famiglia. Se i migranti potessero circolare liberamente per l’Europa si appoggerebbero di più alle famiglie e meno ai centri di accoglienza, costando meno alla collettività. Questi sono fallimenti probabili”.

Quanto pesa lo “choc culturale” dell’arrivo in una cultura completamente diversa?

“Può creare problemi soprattutto all’inizio. Ma queste problematiche tendono a risolversi man mano che la persona si integra. Le persone migranti hanno grandi capacità di resilienza. Hanno già affrontato tante difficoltà durante il viaggio per cui sono abbastanza allenate. Per alcuni, però, può essere difficile e spiazzante”.

Quali sono i disturbi dei profughi che fuggono da conflitti, persecuzioni, torture?

“Nell’ultimo anno i migranti forzati costretti a fuggire stanno diventando la maggioranza. Arrivano con sintomi di disturbi post-traumatici a volte abbastanza gravi, che rendono molto difficile l’inserimento. Sono persone disturbate da pensieri intrusivi, non riescono a concentrarsi, non dormono la notte per gli incubi. Abbiamo avuto un grosso flusso di persone che hanno subìto torture in Afghanistan e in Africa (Togo, Costa d’Avorio) con persecuzioni per motivi religiosi, politici, orientamento sessuale, etnici. Ora ci aspettiamo qualcosa di grave dalla Libia. Non c’è nigeriana passata nelle carceri libiche di Gheddafi che non abbia subito violenza sessuale”.

Che capacità di recupero hanno?
“Molti hanno grandi capacità di recupero. Se trattati per tempo hanno grandi risorse. Quelli che riescono ad arrivare hanno una grossa fibra. Ovviamente non ci si può limitare alla psicoterapia, serve un supporto sociale a 360 gradi. L’idea di essere trattati come esseri umani e con dignità, dopo aver subito tante umiliazioni, per loro è importantissimo: è l’inizio di una speranza. Certo, se gli facilitassimo un po’ la vita sarebbe meglio”.

Ci sono dati sull’incidenza del disturbo post traumatico da stress tra i rifugiati?

“A livello mondiale incide dal 5 al 45% a seconda degli studi. Tra chi esce da centri di detenzione come i Cie vi sono percentuali più alte, fino al 50%. Trattarli male all’inizio significa tenerli in quella condizione per diversi anni. In Italia abbiamo fatto ricerche sui migranti che si rivolgono al medico di famiglia. Qui il disturbo post traumatico da stress è intorno al 10-12%. Il 25% ha disturbi di somatizzazione che derivano da sofferenza psicologica. Tra ansie, depressioni e somatizzazione si arriva al 40%”.

L’opinione pubblica spesso esaspera alcuni casi di cronaca. A torto o a ragione?

“L’allarmismo serve solo ai politici per attirare voti. Non ci sono sindromi specifiche che appartengono solo ai migranti. Queste persone, quando sono sotto stress, soffrono delle nostre stesse patologie. Poi ci sono degli aspetti culturali che danno una forma piuttosto che un’altra, ma sono veramente poche. Comunque noi monitoriamo i casi dal 2001 e non ci risulta un aumento di disturbi”.

È più difficile curare un migrante?
“La cosa più difficile è la carenza di supporto sociale. Gli italiani hanno un medico di famiglia e servizi che li seguono. I migranti spesso cambiano residenza e questo crea difficoltà. Ovviamente ci sono le differenze di lingua e cultura, ma riusciamo a gestirle con l’aiuto di mediatori. In Italia non c’è una grande difficoltà di accesso ai servizi di salute mentale, il problema pratico è la continuità della cura”.

Quali consigli per migliorarne la presa in cura?
“Recepire alcune indicazioni normative come il pediatra di base a livello preventivo; migliorare l’accoglienza e l’integrazione; formazione e sensibilizzazione per aiutarli in tempo. Ed evitare situazioni oggettivamente traumatizzanti: rinchiudere queste persone in lager come i Cie è deleterio. L’equazione è molto semplice: più patologia produciamo, meno integrazione facciamo, più queste persone rimangono a carico della società”.

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