Se un matrimonio è per sempre, lo è anche un divorzio. È quanto ha voluto ribadire il premier britannico David Cameron alla vigilia del referendum scozzese per l’autonomia da Londra. Una velata minaccia che suona al contempo come una promessa. Del resto lo stesso Cameron è fautore di un altro voto popolare che – se verrà rieletto – ha promesso per il 2017 ai sudditi di Sua Maestà per dire liberamente sì o no alla permanenza del Paese nell’Unione europea.
Chi di referendum ferisce – parafrasando l’antico detto – di referendum perisce? Perché l’eventuale vittoria dei secessionisti di Aberdeen, Edimburgo e Glasgow metterebbe a rischio la permanenza di Cameron al numero 10 di Downing Street. L’isola, dunque, è in fermento. Sulla possibile secessione del nord si sono espressi tutti, dagli studiosi alle star dello spettacolo, dai capi d’impresa ai rappresentanti delle Chiese. Elisabetta II teme che il suo regno perda una parte consistente di territorio e di popolazione e, pur con estremo garbo istituzionale, ha invitato i discendenti di Braveheart a riflettere bene sul loro futuro… Sul versante opposto ha alzato la voce il leader degli indipendentisti, e attuale premier scozzese, Alex Salmond, che ha puntato sul concreto: “Da soli gestiremo meglio la nostra ricchezza”, fondata fra l’altro su petrolio, pesce e whisky. “Gli scozzesi sanno che il referendum è un’opportunità storica per costruire un Paese più ricco”, afferma, ricordando che “abbiamo un Pil pro capite più alto di Francia, Giappone e Gran Bretagna”. Per concludere con un ragionamento di per sé lineare: “Nessuno può governare la Scozia meglio degli scozzesi”.
Sull’altro piatto della bilancia stanno però i problemi concreti che si porrebbero dinanzi a un Paese nato – anzi rinato, dopo 307 anni – praticamente dal nulla: la Scozia non ha una sua moneta né una Banca centrale; il sistema postale è inglese, come lo è, di fatto, l’esercito; staccandosi dall’Inghilterra, la Scozia perderebbe innumerevoli società e grandi aziende, che hanno già minacciato di trasferirsi nei pressi della City. In compenso gli scozzesi metterebbero a rischio il welfare, i conti bancari e i mutui (gestiti da banche inglesi), un export che in massima parte si dirige a sud del Vallo di Adriano. E si troverebbero sulle spalle una significativa parte del debito pubblico britannico, che Cameron ha già promesso di “donare” alla futura Scozia libera. Edimburgo verrebbe inoltre tagliata fuori dall’Unione europea. È vero che ci sarebbe un anno e mezzo di tempo per negoziare la permanenza (o, meglio, l’ingresso) nella “casa comune” prima dell’indipendenza, la cui data prestabilita è il 2016; ma è altrettanto vero che per essere ammessi all’Ue occorre il voto favorevole e unanime dei 28 Stati membri: a quel punto, oltre al possibile no di Londra, ci sarebbe il quasi certo stop della Spagna, che non intende alimentare le già bollenti rivendicazioni separatiste catalane.
In realtà la Scozia è ormai parte integrante del Regno Unito: e pur nella comprensibile sottolineatura delle differenze storiche e culturali, geografiche e produttive, nonché di un sano “orgoglio patriottico”, occorre ammettere che inglesi e scozzesi hanno ben più in comune di quanto non li separi. È allora lecito pensare che il nazionalismo strisciante e il populismo conclamato che stanno attraversando l’intero continente europeo abbiano inciso su questa campagna referendaria? È possibile immaginare che una vittoria del sì porterebbe più problemi che soluzioni alle concrete e legittime aspirazioni degli stessi scozzesi?
Nessuno sa bene cosa potrebbe accadere se prevalessero gli “yes” rispetto ai “no thanks”. Si tratta di una scommessa pericolosa. Sta agli scozzesi decidere del proprio futuro.