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Vescovo Carlo: “Una parrocchia, non può più considerarsi autoreferenziale…”

DIOCESI – Il discorso del Vescovo Carlo Bresciani: “Siamo all’inizio di un nuovo anno pastorale che vogliamo incominciare insieme. Ringrazio innanzitutto il Signore Dio per questa occasione di incontro che ci viene data: mi pare davvero una grazia del Signore poterci trovare insieme sacerdoti, consacrati, seminaristi e fedeli impegnati nelle varie realtà ecclesiali della nostra diocesi. Mi pare un bellissimo segno per la nostra diocesi: quello di una Chiesa disponibile a riflettere e programmare insieme per il bene dei fedeli che il Signore ci ha affidato. Ringrazio di cuore tutti voi per la vostra presenza e per il vostro impegno nei diversi ambiti della vita pastorale.

Sento, inoltre, di dovere ringraziare il Signore per l’opportunità che mi viene data di vivere con voi, in questa chiesa di Dio che è in san Benedetto, il prossimo anno pastorale, condividendo con voi le gioie e le fatiche che non mancano mai a coloro che si fanno carico del Vangelo.

In questi primi mesi di mia presenza in questa diocesi ho potuto notare con grande consolazione quanto sia grande l’opera che Dio va compiendo tra noi e quanto sia grande e generosa la corrispondenza da parte sia del clero che dei fedeli. Ciò deve esserci motivo di stimolo a cooperare sempre di più perché i semi così abbondantemente sparsi tra noi da Dio diventino alberi rigogliosi che possano cantare le sue opere meravigliose e profumare del profumo di Cristo.

Ciò significa che non partiamo dal nulla, abbiamo alle spalle una lunga storia di fede vissuta e una tradizione di impegno e di amore a Dio e alla nostra Chiesa che ci sprona e ci incoraggia. Siamo grati a coloro che nel passato questa storia hanno costruito con tanta fatica e tanti sacrifici giorno dopo giorno. Sappiamo che solo il Signore potrà ricompensarli adeguatamente.

Ma non possiamo fermarci a consolarci delle opere del passato, dobbiamo cercare di rispondere al meglio a ciò che Dio chiede a noi oggi. Anche il miglior albero da frutto se non viene continuamente curato, concimato e potato dai rami secchi che lentamente si accumulano, finisce per essere un ammasso di rami confusi che non danno più frutti o ne danno di scarsa qualità. Per questo, accogliendo con animo grato quanto ci viene dal passato, guardiamo con fiducia al futuro che siamo chiamati a costruire in ascolto di ciò che Dio ha da dire alla nostra chiesa diocesana.

Il programma pastorale
Da diversi anni i vescovi italiani nei loro documenti, e di recente papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium [EG], invocano una conversione pastorale e missionaria e una pastorale più di evangelizzazione che di sacramentalizzazione. Non ci è immediatamente chiaro che cosa possa significare concretamente questo. Una indicazione ci viene data, però, chiaramente: bisogna passare “da una pastorale di semplice conservazione a una pastorale decisamente missionaria” (EG 15) e non cadere “in una specie di introversione ecclesiale” (EG 27) e così spiega: «Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione».

Una indicazione ulteriore ci viene dai vescovi italiani che nella Nota pastorale del 2004 Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia ci dicono che si rende necessaria una revisione pastorale che riguardi non solo le piccole parrocchie, cui diventa sempre più difficile garantire un servizio pastorale e liturgico come nel passato, ma anche quelle più grandi “tutt’altro che esenti dal rischio di ripiegamento su se stesse. Tutte devono acquisire la consapevolezza che è finito il tempo della parrocchia autosufficiente” (n. 11). Si tratta di una chiamata dello Spirito a camminare verso una nuova comunione tra parrocchie, certamente esigente, ma che può e deve diventare autentica testimonianza evangelica. Le parrocchie sono chiamate a vivere una fattiva collaborazione e una vera comunione tra loro, nel dono reciproco di risorse, esperienze e persone. Se ogni parrocchia non è più autosufficiente, il sacerdote stesso non potrà più comprendersi, ed essere compreso, come ‘proprietà’ di questa o quella parrocchia, ma come colui che è chiamato a servire la comunione e la collaborazione all’interno della vicaria  e della diocesi nel suo insieme.

Tutto ciò non è richiesto solo dal calo numerico delle vocazioni, e quindi dalla poca disponibilità di presbiteri da garantire ad ogni parrocchia (questo è forse solo lo stimolo esterno e più superficiale, anche se non possiamo negarlo), ma soprattutto dalle vicende della fede nelle nostre comunità. La crisi della fede, soprattutto la crisi nella trasmissione generazionale della fede, impone la ricerca di nuove strade che non possono essere percorse dalla parrocchia che si pensasse autosufficiente, e ciò ha spinto alla necessità di riscoprire valori della collaborazione di cui in altri tempi non si sentiva così forte la necessità e l’urgenza.

In questo contesto, il calo delle vocazioni al sacerdozio diventa un segno dei tempi attraverso cui il Signore ci chiama ad essere una Chiesa più condivisa e partecipata, più sobria ed essenziale. Collaborazione, partecipazione, condivisione, comunità sono i termini più ricorrenti e più usati nei documenti del Concilio Vaticano II.

Non possiamo pensare di poter rispondere al calo delle vocazioni solo con il ricorso sempre più massiccio ad aiuti provenienti da altre parti del mondo, importando sacerdoti. Siamo ovviamente molto grati all’aiuto che i sacerdoti stranieri danno con generosità alla nostra diocesi, e siamo grati della loro presenza, ma ciò dovrebbe caso mai collocarsi nel contesto di uno scambio fraterno tra chiese sorelle, senza rinunciare alla ricerca di una autosufficienza vocazionale della nostra diocesi.

Un cammino virtuoso, ma anche faticoso.
Non si possono negare fatiche e disagi, per i preti e per i laici, che un progetto comune e la conversione missionaria che ci è richiesta possono introdurre: si tratta, infatti, di modificare, forse, alcune tradizioni e stili di vita personali e pastorali consolidati nel tempo e mettere da parte certi desideri e aspirazioni anche da parte dei laici, del tipo “chiediamo un prete tutto per noi”, “la nostra parrocchia è molto diversa dalle altre”, e di mettere da parte anche alcune mentalità di noi preti: “io conosco bene quali siano i bisogni della mia parrocchia, vado avanti da solo”, ecc. Questo significherebbe entrare nel programma pastorale con il freno a mano tirato o pronto ad essere tirato ogni volta che la strada comporti qualche asperità o qualche cambiamento. Non possiamo guardare soltanto indietro a ciò che siamo chiamati a lasciare o a cambiare! Occorre accettare il rischio di mettersi in gioco.

Ogni passaggio o cambiamento, è naturale, comporta paure, insicurezze, investimento di nuove energie, ma questo è quanto ci chiede il tempo che viviamo e Dio ci chiede di dare risposte a questo nostro tempo. Di fronte a un mondo che cambia, ed è cambiato vertiginosamente in questi ultimi decenni, non possiamo restare a contemplare nostalgicamente il passato o cercare di farlo tornare: non tornerà più. La fede è vita e, quindi, è storia, anzi deve diventare storia, e la storia è sempre dinamica. Non esiste un tempo passato della Chiesa o della pastorale che sia insuperabile. Le nostalgie del passato sono segnate dal rifiuto o dalle resistenze ad andare incontro al mondo di oggi e alle fatiche della sua evangelizzazione. Altro sono le verità della fede che sono immutabili, altro il modo di viverle e annunciarle. Se le prime sono eterne, i modi di viverle e di annunciarle non lo sono. Basta conoscere anche molto superficialmente la storia della Chiesa per rendercene immediatamente conto.

 

Alcune difficoltà legate alla collaborazione pastorale in sé

  1. La pretesa di aver tutto chiaro e tutto definito prima di partire. Partiamo con la fiducia nella parola di Dio, essa ha una sua efficacia intrinseca se noi ci mettiamo comunitariamente in ascolto. Gli apostoli che hanno accettato di seguirlo non avevano chiaro fin dall’inizio dove li avrebbe portati. Si sono fidati di Lui.
  2. Le diversità personali o di tradizioni pastorali delle diverse parrocchie o vicarie della diocesi. Ovvio che queste diversità ci sono e forse hanno anche una loro ragione e sono fonte di ricchezza, ma non possono essere pretesto per togliersi da un cammino comune, caso mai per arricchirlo.
  3. La pretesa di fare da soli e di evitare il confronto con la diocesi e con gli Uffici preposti dal Vescovo alla pastorale. Tutte le scelte pastorali non sono verità di fede, hanno una loro opinabilità, è vero, ma sono opinabili, a maggior ragione, anche le scelte di chi pretende di fare da solo e di evitare il confronto con la diocesi in un discernimento comunitario. Alcune difficoltà vengono da impostazioni pastorali troppo ‘originali’, legate alla persona del prete un po’ ‘carismatico’, diciamo così, ma che mal si adattano a una programmazione di comunione o diocesana.
  4. La paura che venga meno l’identità della propria parrocchia: che cosa poi significhi l’identità della parrocchia diventa difficile da spiegare se non rifacendosi a tradizioni religiose e iniziative locali – come sagre, processioni o manifestazioni varie – che hanno certamente la loro importanza, ma che sono superficiali rispetto alla vera identità della parrocchia la quale ha come suo nucleo e sua finalità la missione di annunciare il Vangelo a tutte le persone del territorio su cui essa insiste, appartengano esse o meno ad associazioni o movimenti.
  5. Ciò che crea maggior difficoltà è la percezione più o meno chiara che sta di fatto cambiando la figura e l’esercizio del ministero presbiterale, con la conseguente difficoltà a intravedere i contorni di una nuova identità e a discernere quali siano le scelte adeguate da compiere. Noi tutti ci pensiamo ancora prevalentemente nello schema parroco-parrocchia e dentro una pastorale prevalentemente liturgico-sacramentale. Ciò ha dato buoni risultati nel passato e ci ha conferito una identità pastorale ben definita e dobbiamo renderne grazie a Dio. Ma le nostre comunità sono cambiate, la vita liturgica è vissuta da una minoranza dei parrocchiani e i sacramenti sono diventati per molti più un rito tradizionale che un momento di rinnovamento della vita in Cristo, quando non addirittura pratiche da espletare e da passare negli album dei ricordi storici da mostrare in futuro più per gli abiti indossati che per il mistero di Cristo che si è vissuto ed esperimentato.

Queste difficoltà sono dei preti, ma anche dei laici che resistono, a volte fortemente, a qualsiasi cambiamento di ‘tradizione’.

Che fare?

  1. Priorità all’evangelizzazione. Non sempre è facile capire che cosa possa significare nei nostri attuali contesti. C’è il rischio di cadere in slogan ad effetto (andiamo alle periferie, conversione missionaria, ecc.), che ripetuti in ogni omelia ci lascino l’impressione di aver fatto con ciò stesso tutto quanto ci è richiesto, un po’ come quel mio confratello, docente di teologia in un seminario del nord Italia, che ai corsi di aggiornamento si segnava su un quadernetto le parole e gli slogan nuovi da introdurre nei suoi corsi, dicendo poi ironicamente: “ora sono aggiornato”. Se così fosse, saremmo ancora in una pastorale di pura conservazione, per nulla sensibile verso chi è lontano dalla Chiesa o verso coloro che, battezzati, per diversi motivi hanno abbandonato la fede o la pratica religiosa.

Dobbiamo con onestà riconoscere che nelle nostre parrocchie, o nella maggioranza di esse, ci si dà molto da fare per incontrare il maggior numero possibile di persone. Dobbiamo riconoscere che nell’ambito della carità in genere ci si dà molto da fare e lodevolmente. Ci sono molti tentativi per avvicinare le coppie in difficoltà, molte energie vengono profuse per incontrare e annunciare il Vangelo a tanti giovani sempre più lontani dalla fede. Credo che un po’ tutti, almeno qualche volta, ci siamo chiesti che cosa potremmo fare più di quello che si è fatto o si è cercato di fare.

Non si tratta quest’anno di fare più iniziative, ma di mettere al centro la Parola di Dio e di lasciarci guidare da essa per discernere e verificare il nostro modo di essere comunità cristiana e di vivere la fede. Ci lasceremo guidare da san Paolo, in modo particolare da quello che lui ha scritto ai Corinti nella sua prima lettera. Per cui desidero che, secondo il programma che i nostri Uffici lodevolmente hanno predisposto (e di questo sono loro molto grato per il grande e pregevole lavoro fatto), questa lettera sia quest’anno il testo base delle catechesi parrocchiali, a cui esorto tutti i fedeli a partecipare. San Paolo ci guiderà nel nostro cammino di fede e ci insegnerà ad aprirci alle Corinto di oggi. Egli è il missionario che ci insegna come andare verso coloro che non conoscono Cristo e come vivere e crescere da comunità cristiana che diventa testimone della grazia di Gesù.

La lettera pastorale, che ho rivolto a tutti i fedeli della diocesi e che questa sera consegnerò in modo simbolico ad alcuni, mette in evidenza alcuni aspetti della lettera di san Paolo e indica alcune piste di riflessione personale e comunitaria che ci possono guidare in quella conversione personale e pastorale che la Chiesa ci va chiedendo. Prego il Signore perché la meditazione della Parola di Dio sia sempre più il nutrimento solido delle nostre comunità e della nostra fede personale.

  1. Non significa che dobbiamo caricarci sempre più di ulteriori pratiche devozionali, di feste parrocchiali di ogni tipo, con adeguate cucine a pieno ritmo, di pellegrinaggi e di molto altro ancora. Non che si tratti di cose in sé negative, ma portano poco lontano se non c’è un annuncio della fede e ci si limita a momenti di aggregazione sociale o a dare spazio consolante a sfoghi ondivaghi di emotività genericamente religiosa. Le varie devozioni della pietà popolare siano sempre più innervate dalla Parola di Dio senza di cui non sono cibo solido della fede e non ci aiutano ad essere Chiesa. E, per favore, lasciamo da parte ogni forma di superstizione che deturpa il volto di Dio e della Madonna!
  2. Tutto questo, perché non possiamo rimanere indifferenti ai tanti appelli che autorevolmente ci vengono rivolti per una conversione missionaria della pastorale. Non possiamo fermarci a dire che abbiamo già tentato tutto e che quindi è inutile ogni sforzo nuovo (cfr. EG 275). Già Paolo VI nella Evangelii nuntiandi (1975) e ora papa Francesco con la Evangelii Gaudium ci chiamano a conversione pastorale. Ma ancora prima i vescovi italiani  nella Nota pastorale del 2004 Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia: “Ė necessaria una nuova pastorale missionaria, che annunci nuovamente il vangelo, ne sostenga la trasmissione di generazione in generazione, vada incontro agli uomini e alle donne del nostro tempo, testimoniando che anche oggi è possibile, bello, buono e giusto vivere l’esistenza cristiana conformemente al vangelo” (n. 1). Queste parole le ripropone papa Francesco, quasi dieci anni dopo, nella EG (n. 27).
  3. Centralità della parrocchia, ma una nuova identità della parrocchia. La parrocchia non è ancora superata, ma è vero che la mobilità che caratterizza il nostro mondo (vedi: lavoro, scuola, divertimento, ecc.) non permette più di pensare a una parrocchia chiusa su se stessa e autosufficiente. Scrive papa Francesco:

La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità. Sebbene certamente non sia l’unica istituzione evangelizzatrice, se è capace di riformarsi e adattarsi costantemente, continuerà ad essere «la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie». Questo suppone che realmente stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi. La parrocchia è presenza ecclesiale nel territorio, ambito dell’ascolto della Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, dell’annuncio, della carità generosa, dell’adorazione e della celebrazione. Attraverso tutte le sue attività, la parrocchia incoraggia e forma i suoi membri perché siano agenti dell’evangelizzazione. È comunità di comunità, santuario dove gli assetati vanno a bere per continuare a camminare, e centro di costante invio missionario. Però dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione (EG 28).

La parrocchia è legata alla territorialità: è quindi il modo concreto e più immediato con cui la Chiesa locale si prende cura di un determinato gruppo di persone: è la più capillare porta d’ingresso alla fede cristiana e all’esperienza ecclesiale. La parrocchia è lì per tutti quelli che arrivano, per qualunque necessità, senza dover esibire tessere di appartenenza. Ė la fontana del villaggio cui ognuno, quando vuole, può andare ad attingere acqua pura da bere.

Ma ciò comporta anche pesantezze: essa non può pretendere di soddisfare tutte le esigenze e rispondere ai diversi cammini di fede che gruppi di persone hanno intrapreso. Né può legarsi a un solo gruppo di persone. Essa offre piuttosto l’essenziale per diventare cristiani e nutrire la fede.

Tuttavia, una parrocchia, come abbiamo detto più volte, non può più considerarsi autoreferenziale, accontentarsi dei soliti fedeli e assistere al progressivo declino dei frequentanti via via che l’età fa il suo lavoro. Non può limitarsi a soddisfare le richieste di celebrazioni liturgiche, magari moltiplicandole per esigenze di singoli o per piccoli gruppi perché si mantengano le tradizioni, magari rifiutandosi solo quando la comodità del sacerdote verrebbe troppo disturbata o quando manca l’offerta per la celebrazione.

Bisognerà interrogarsi se la collaborazione e la sinergia tra le parrocchie non sia necessaria per il potenziamento della catechesi degli adulti, per un maggior coordinamento della pastorale giovanile, della carità e della famiglia, per la sperimentazione di percorsi di nuova evangelizzazione. Papa Francesco ci dice che per dar vita a una parrocchia ‘missionaria’ è necessario essere più audaci e abbandonare il comodo criterio del “si è sempre fatto così” (EG 33) e magari solo dall’anno scorso.

  1. Una diversa valorizzazione dei laici. Quest’anno pastorale riattiveremo la preparazione, con corsi specifici, di alcuni ministeri laicali, in modo specifico per i catechisti, per la distribuzione dell’eucaristia, per la proclamazione della Parola di Dio e per il volontariato nelle caritas diocesana e parrocchiali. Tutto ciò è da leggere nella esigenza di potenziare la corresponsabilità nella comunità cristiana e per valorizzare i carismi, in linea con quanto dice san Paolo nella lettera ai Corinti.

La preparazione di nuovi laici per i diversi ministeri non significa far salire i laici sull’altare perché i preti ne scendano, o perché si formino in parrocchia ‘ruoli sacri’ di cui questo o quello se ne impossessino e … guai a chi li tocca, fosse pure il parroco o il vescovo. Se fosse così, meglio non pensare ai ministeri laicali. Si tratta di servizi alla comunità, non di ruoli per l’affermazione di sé, quindi spetta al parroco individuare, invitare e inviare alla preparazione al ministero. Un servizio non lo si impone, lo si offre; è da pensare alla luce di una comunità che vuol raggiungere quelli che stanno alla periferia di essa, non per la gratificazione di chi lo esercita. Un servizio in comunità ovviamente impegna anche a un cammino personale di fede, perché non si tratta solo di fare, ma di vivere con motivazione profonda di fede.

La questione dei ministeri laicali non è da considerare però solo alla luce esclusiva dei ministeri liturgici (distribuzione dell’eucaristia, lettura della parola di Dio, catechesi …), questo è solo un aspetto, e per me sotto tanti punti di vista non il più importante, non tanto perché non si tratti di ministeri di poco rilievo, quanto perché la corresponsabilità del laico non sta solo nel rendere decorosa la celebrazione liturgica o nel fare catechismo, quanto nel rendersi corresponsabile  perché il vero senso della Parola e del sacramento sia compreso sia dai frequentanti che da coloro che sono lontani, e questo perché vive il Vangelo dentro i suoi ambiti di vita. Se poi il laico sia sull’altare, con il camice o meno, è di poco conto. La Evangelii Nuntiandi è molto chiara nell’evitare di confinare la vocazione e la missione dei laici nell’ambito strettamente pastorale e parrocchiale (catechisti, lettori, accoliti, ecc.). Il loro compito immediato e primario non è l’istituzione e lo sviluppo della comunità ecclesiale (cfr. EN, n. 70), non certo perché sono chiamati a disinteressarsi di essa. Ma il laico prima di essere lettore o catechista, sia marito o moglie, padre o madre, imprenditore o operaio che cerca di vivere con coerenza il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa.

I laici, quindi, protagonisti dell’evangelizzazione della vita e degli ambiti di vita (quelli di cui si è trattato nel Convegno di Verona del 2006): così si raggiungono le periferie, che a volte sono la famiglia in cui si vive. A poco serve fare la carità fuori casa se non cvi si preoccupa di viverla anche in casa con i propri familiari: questi devono venire prima!

Ė in questa luce che è da comprendere il tentativo che verrà fatto quest’anno di rilanciare e ripotenziare la Scuola di teologia per laici: si vorrebbe aiutare il laico (e il consacrato) ad approfondire le ragioni della propria fede per viverla coerentemente nei luoghi che gli sono propri: il lavoro, la famiglia, l’economia, la scuola, la sanità, solo per citarne alcuni. Si tratta di uno sforzo notevole, del quale sono grato ai PP. Sacramentini, e a Padre Crocetti che ha diretto lodevolmente per molti anni questa scuola, ma ora essa ha bisogno dell’aiuto di nuove energie che cercheremo quest’anno e nei prossimi anni (non è da pensare che possa trattarsi di impegno di un anno soltanto) di raccogliere. Invito i parroci a sollecitare i fedeli a frequentarla, invito i fedeli ad approfondire la propria cultura teologica per dare maggior contenuto e fondamento al proprio credere. Senza una profonda conoscenza di Cristo facciamo fatica a rendere ragione a chi ce ne chiedesse conto, ma infine non solo agli altri, ma anche a noi stessi, del perché della nostra fede. Se certamente non bisogna aver studiato teologia per essere cristiani, è vero però che la conoscenza della Sacra pagina (come veniva chiamata la Parola di Dio) è fondamentale per orientare correttamente il nostro affetto per Gesù e per Dio.

Come si vede, intendo dare la priorità alla formazione. La carne al fuoco è molta. Vediamo di non lasciarci prendere da ansietà. Se saremo capaci di collaborare, ciascuno nel proprio campo, se saremo capaci di darci fiducia e di dare fiducia agli organismi e agli Uffici diocesani che sono chiamati a dare corpo alle proposte pastorali, sarà possibile fare un buon tratto di strada.

Nei primi mesi dell’anno pastorale ricostituirò anche il Consiglio Pastorale Diocesano. Esso sarà tanto più efficace quanto più sarà espressione della presenza laicale nella parrocchia e nella vicaria. Non vorrei un’assemblea di notabili, ricchi di meriti, ma senza le mani in pasta nel presente della vita parrocchiale o vicariale, senza escludere i giovani. Vedremo come procedere.

Prego che il Signore ci accompagni, prego per ciascuno di voi. Non perdiamo la fiducia, sappiamo che il seme, anche quando fosse piccolo, se è buono, dà pianta e frutti copiosi.

Vi benedico di cuore e che il Signore ci accompagni”.

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