Prima il suo amico Brad Pitt con Angelina Jolie, poi la sua ex Elisabetta Canalis con il chirurgo americano Brian Perri. Ora, finalmente è arrivato il suo turno: George Cloneey impalmerà la bella Amal Alamuddin, avvocato tunisino di grido, e anche lei – come il futuro sposo – con un patrimonio cospicuo alle spalle, visto che sarà suo padre ad accollarsi i costi (neanche a dirlo faraonici) del ricevimento a Ca’ Papadopoli, lussureggiante dimora settecentesca sul Canal Grande della catena araba Aman.
A scorrere, in questi ultimi mesi, le pagine dei rotocalchi ci si accorge che il matrimonio, in Italia, è diventato “roba per ricchi”: i divi di turno fanno a gara per aggiudicarsi il titolo di “matrimonio dell’anno”, e tutto viene preparato nei minimi dettagli per vendere l’evento al miglior offerente, salvo poi ad affrettarsi a dire che tutto il ricavato andrà in opere di beneficenza. Si fa a gara, wedding dopo wedding, a mobilitare lo “star system” – a Venezia per il matrimonio di Clooney, officiato dall’ex sindaco di Roma Walter Veltroni, gli appassionati di musica potranno scegliere tra Andrea Bocelli, Bono Vox e Lana del Rey – con corti di attori, personaggi del jet set e del mondo dello spettacolo che affollano gli ambìti “parterre” degli invitati. E i festeggiamenti, “ça va sans dire”, durano giorni e giorni, non solo in Laguna ma anche in terra di Puglia, come abbiamo visto di recente per il matrimonio dei due “rampolli indiani”.
L’Italia, insomma, grazie alla “grande bellezza” che il mondo ci invidia, è diventata una mega “location” per matrimoni di lusso, ed è davvero paradossale che i testimonial di una delle istituzioni più bistrattate, e a rischio di estinzione, della società occidentale – il matrimonio, appunto – siano i “soliti noti”, abitanti di un mondo che fa della superficialità, del lusso, dell’effimero, del culto dell’istante e dell’ossessione per l’ostentazione il suo biglietto da visita. All’insegna di un individualismo sfrenato e senza limiti, che considera il matrimonio alla stregua dell’ennesimo “oggetto di consumo” da esibire come status symbol. L’Italia, come è noto, è un Paese dove ci si sposa sempre meno e sempre più tardi, dove il numero dei matrimoni – civili e religiosi – è in declino costante e via via più accentuato da 40 anni. Fatta la tara dell’aumento delle convivenze e del tasso di separazioni e divorzi, una delle ragioni che concretamente scoraggia di più i giovani nel fare quello che con una terminologia ormai d’antan veniva definito il “grande passo” è la mancanza di lavoro: un giovane su tre nel Bel Paese è disoccupato, e sono 4 milioni i precari. È a questo sano realismo, e non al glamour patinato campione di incassi, che farà riferimento il Sinodo straordinario sulla famiglia, che inizia tra pochi giorni in Vaticano. “Dobbiamo preoccuparci dei poveri a partire dalla famiglia”, l’appello lanciato nei giorni scorsi dal cardinale Maradiaga. “Come possiamo raccomandare ai giovani disposarsi e di avere figli se non hanno neppure la possibilità di avere una casa?”. Rispondere a questa domanda diventa cruciale, se vogliamo che il matrimonio – ancora, nonostante tutto, saldamente in cima ai sogni dei giovani di ieri come di quelli di oggi – non sia mai più soltanto “roba da ricchi”