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Ecco la domanda più difficile: perché sposarsi?

Di M. M. Nicolais

Oggi ci si sposa sempre meno, e il matrimonio come istituzione è in crisi generalizzata, che non risparmia neanche i matrimoni civili. Aumentano invece in maniera esponenziale le convivenze. “La tendenza a non considerare il matrimonio mi sembra molto seria”, ha detto di recente monsignor Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia, facendo eco alle parole pronunciate, già in occasione della presentazione alla stampa dell’Instrumentum laboris, dal cardinale Péter Erdõ, relatore generale al Sinodo straordinario sulla famiglia, che si apre domani in Vaticano: “Il fenomeno delle convivenze e delle unioni di fatto, in crescente diffusione, è motivato da diversificate ragioni, tra cui quelle sociali, economiche e culturali. La Chiesa sente il dovere di accompagnare queste coppie nella fiducia di poter sostenere una responsabilità, come quella del matrimonio, che non è troppo grande per loro”.
Più che la questione, pur centrale e delicata, dell’accesso alla Comunione per i divorziati risposati – in questi mesi sotto i riflettori da parte dei media, che la utilizzano come una sorta di “cavallo di Troia” per disegnare mappe delle gerarchie ecclesiastiche a tinte forti, come se ci fosse “un partito del Papa” e un’altra fazione dissenziente – nei fatti la domanda fondamentale a cui è urgente saper rispondere, rendendone ragione in maniera non astratta, è “perché sposarsi?”. E proprio questa domanda dà il titolo a un libro (“Perché sposarsi?”, Edizioni San Paolo) scritto a quattro mani da Giulia Paola Di Nicola e Attilio Danese, marito e moglie, condirettori della rivista “Prospettiva persona”, che partono dalla loro pluridecennale esperienza di saggisti e docenti universitari, ma soprattutto dalla “militanza” a fianco delle famiglie per formulare dieci ragioni che “fanno del matrimonio una risorsa indispensabile alla vita umana”. “Anche indipendentemente – senza essere indifferente – dalla sua dimensione religiosa o sacramentale”. Postilla, quest’ultima, non di poco conto, per la Chiesa “in uscita” tanto cara a Papa Francesco.
Il punto di partenza è un dato di realtà con cui chiunque di noi, genitore o no, ha fatto almeno una volta i conti: “Le nuove generazioni sono meno motivate nei confronti del matrimonio e non tollerano una difesa dell’istituzione basata soltanto o prevalentemente sulla tradizione o sulla religione”. Oggi i fidanzati – anche se certo non in modo banale o semplicistico, come se si trovassero al supermercato – valutano la “convenienza” di una simile scelta: il parametro è la “qualità” della vita, o meglio l’impatto che su di essa potrebbero avere non solo l’eventuale matrimonio, ma anche i costi dei paventati divorzi, separazioni e conflitti. Per non parlare della paura del “per sempre”. E, allora, perché non rispondere alla domanda di cui sopra utilizzando anche i termini, così in voga, del linguaggio economico? In fondo, il matrimonio è un “investimento”: “Se tutti ritirassero la fiducia da una banca, una scuola, una nazione, queste istituzioni crollerebbero”. Perché dovrebbe essere diverso, per il matrimonio? Investire sull’altro vuol dire fargli credito, firmargli un assegno in bianco. Con la necessaria prudenza, però: la resa non può essere incondizionata, la fiducia sì. Nell’amore degli sposi c’è un’eccedenza non monetizzabile, ma la gratuità “non cancella il necessario equilibrio delle risorse da scambiare, secondo giustizia e perseguendo una ideale mai perfettamente raggiunta reciprocità”.

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