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Nuove moschee? Individuare un percorso di garanzia

Di Maurizio Calipari

Numeri alla mano, è noto che, pur con una notevole differenza quantitativa rispetto al Cristianesimo, l’Islam occupa da parecchi anni la seconda posizione nella graduatoria delle religioni presenti in Italia. In base a statistiche recenti (fonte Caritas e Migrantes – 2012) i fedeli musulmani stabilmente presenti nel nostro Paese sarebbero circa 1 milione e 500mila, quasi tutti di tradizione sunnita (gli sciiti rappresenterebbero solo l’1,5% del totale). Poiché l’Islam è caratterizzato da una forte dimensione comunitaria, anche per i fedeli musulmani che vivono in Italia si pone ovviamente il problema della costruzione o del reperimento dei luoghi di culto dove riunirsi per la preghiera e le altre attività comunitarie. Questo diritto, oltre che dal buon senso civico, è sancito dall’art. 19 della nostra Costituzione: “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”. Questa garanzia per la libertà di culto è stata più volte promossa e sostenuta anche dalla Chiesa cattolica, soprattutto a partire dalla Dignitatis Humanae (Conc. Vat. II), dove viene ribadito che la libertà religiosa si fonda sulla stessa dignità della persona umana. Di conseguenza, “questo diritto della persona umana alla libertà religiosa – afferma il n. 2 della Dichiarazione – deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento giuridico della società”.

Non pochi problemi.
 Fin qui tutto pacifico, trattandosi di un diritto umano fondamentale e, come tale, pienamente valido anche per i fratelli musulmani. Tuttavia, la sua implementazione nel contesto storico e sociale attuale pone non pochi problemi, anche in Italia. Indubbiamente, l’attacco agli Stati Uniti dell’11 settembre 2001 ha segnato un punto di non ritorno; associando all’Islam la matrice terroristica, infatti, inevitabilmente si è innescato una sorta di “pregiudizio” nei confronti delle comunità musulmane, oltre a radicalizzarsi alcune posizioni degli schieramenti politici nei loro riguardi. Purtroppo, successivi episodi di terrorismo di sedicente matrice islamica, fino alle atrocità dei nostri giorni ad opera dell’Isis, hanno gravemente rafforzato paura e pregiudizio verso l’Islam che, indebitamente generalizzati, hanno finito per riguardare la comunità musulmana in toto. Nonostante tutto ciò, in questi decenni, i gruppi di fede islamica hanno potuto far nascere, su tutto il territorio nazionale, quasi 1.000 luoghi di culto, tra moschee e centri culturali islamici. Attualmente, le moschee ufficiali sono 8, la prima costruita nel 1980 a Catania e l’ultima nel 2013 a Colle Val d’Elsa (Siena); tutti gli altri luoghi sono costituiti come centri culturali o associazioni. 

Costruire una moschea in Italia non è semplice. Il problema centrale è l’attuale vuoto normativo, nel quale ognuno si muove come crede, cercando soluzioni casuali. A complicare non poco le cose concorre anche un fattore intrinseco all’Islam: l’assenza di una struttura gerarchica unica con cui concordare prassi e regole uniformi. Le singole comunità, infatti, sono praticamente autocefale e fanno riferimento all’imam, guida spirituale e “politica” che, in base alla propria ermeneutica dei testi sacri (Corano e Sunna), segna gli orientamenti teorici e operativi della comunità che coordina. Nelle more, dunque, di un chiaro quadro normativo nazionale nel quale siano esplicitate le regole alle quali le comunità di fedeli dovrebbero uniformarsi, la responsabilità prevalente di eventuali autorizzazioni ricade sulle amministrazioni comunali, che devono fare i conti sia con i vari vincoli di legge connessi alla nascita di un nuovo luogo di culto, sia con le reazioni dell’opinione pubblica locale. In tal senso, non mancano alcune esperienze costruttive che potrebbero essere replicate all’occorrenza. A Colle Val d’Elsa, ad esempio, prima dell’apertura della nuova moschea, l’amministrazione locale aveva siglato un protocollo d’intesa con la comunità islamica, giuridicamente costituita come associazione culturale, che prevedeva la formazione di un comitato scientifico paritetico di garanzia con il compito di concordare il piano delle attività del centro insieme all’organo esecutivo dell’associazione, di promuovere le iniziative destinate a favorire il dialogo interculturale e di verificare il bilancio dell’associazione. Poco prima, nel luglio 2012, il Comune di Milano ha comunicato di aver stabilito il percorso attraverso cui le associazioni religiose potranno chiedere strutture e spazi oppure regolarizzare gli attuali luoghi di culto. “La Giunta comunale per la promozione del dialogo interreligioso e per il sostegno del diritto della libertà di culto – si legge nel comunicato ufficiale – ha infatti deciso di istituire un ‘Albo delle organizzazioni e delle associazioni religiose’, un apposito Protocollo d’intesa e una ‘Conferenza permanente delle confessioni religiose’. Al momento dell’iscrizione all’Albo, i vari soggetti sottoscriveranno un Protocollo d’intesa con l’Amministrazione comunale. In questo documento saranno esplicitati i diritti e i doveri delle parti al fine di garantire un ordinato svolgimento del culto nel rispetto dell’ordinamento giuridico italiano”.

Esempi positivi, ma… Si tratta sicuramente di esempi positivi, ma forse, alla luce degli attuali rischi per la sicurezza sociale, qualche altro elemento cruciale dovrebbe essere integrato in ogni protocollo d’intesa “bilaterale”. Ad esempio, a tanti parrebbe del tutto opportuna l’istituzione a livello nazionale di un albo degli imam debitamente autorizzati, che permetta di conoscere i dati e la biografia dei soggetti posti alla guida delle comunità islamiche locali. Si potrebbe anche prescrivere che la predicazione nei luoghi di culto, moschee e centri culturali islamici, sia obbligatoriamente proferita in italiano, anche come segnale di reale integrazione nel territorio. C’è chi, inoltre, si spinge a ipotizzare anche un referendum consultivo territoriale, laddove si chieda di insediare una moschea in un particolare territorio comunale. L’elenco di proposte migliorative potrebbe ovviamente allungarsi, ivi comprese quelle legate alla sicurezza da garantire a tutti i cittadini, tema che sta molto a cuore alle popolazioni di alcune zone del nostro Paese. In ogni caso, la vera priorità rimane l’impegno a colmare il vuoto normativo attuale, compito davvero arduo per le parti politiche se, di fronte ad una problematica così urgente e complessa, non si decidono a dismettere i panni dell’infruttuosa contrapposizione ideologica e non iniziano a lavorare insieme per il bene comune, incluso il corretto esercizio della corretta libertà religiosa.

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