Di Francesco Bonini
L’Italia dovrebbe sembrare un grande cantiere, tanti sono i progetti di riforma avviati. Un grande cantiere percorso da operai indaffarati, supervisori attenti, tutti presi da un progetto ambizioso, di cui tutti sono consapevoli e fieri. Insomma, l’immagine che ci viene tramandata dell’Italia del “miracolo” e del “boom” economico, quando l’autostrada del Sole, di cui abbiamo appena festeggiato i cinquant’anni, veniva costruita in otto anni.
L’impressione è invece diversa: le riforme che si accavallano sembrano piuttosto un tentativo di risposta rapidamente reiterata a un’Italia sotto stress, affidandosi a una terapia che comporta prioritariamente un massiccio investimento di comunicazione. La comunicazione è diretta, senza intermediari. La cura dello stress prevede insieme di rassicurare il paziente, ma nello stesso tempo di fomentarlo, dirigerne le pulsioni, identificando volta per volta dei bersagli polemici. Anche a costo di generare un processo di frammentazione del corpo sociale, mettendo in competizione, quando non in conflitto, categorie o generazioni e delegittimando così le classi dirigenti intermedie. E di questo non si può non essere preoccupati.
Nulla di nuovo, nella sostanza: sono oltre vent’anni che si parla di riforme, mescolando schemi d’importazione americana con vecchie incrostazioni d’interesse nazional-corporato. Questo ha generato e verosimilmente genererà, dalla pubblica amministrazione alla scuola, ad altri comparti delicatissimi e decisivi, una pericolosa tendenza a esprimere il peggio del “vecchio” e del “nuovo”. Riforme costruite a tavolino falliscono nella loro messa in opera e creano ulteriore stress.
Il primo significato del verbo riformare è “far riprendere la forma primitiva” e così “trasformare dando forma migliore”. Riforma, dunque, è un’operazione delicata e cruciale tra passato e futuro, che non può che partire da una realistica “operazione verità” e, di conseguenza, dal promuovere una altrettanto chiara assunzione di responsabilità: di tutti, a partire ovviamente dagli stessi decisori.
In questo modo si può passare dal dire al fare e si possono evitare i due apparentemente opposti mali italiani, che in realtà si combinano e si coalizzano, il vecchio gattopardismo per cui tutto si cambi perché nulla cambi e un autoritarismo formale altrettanto inconcludente, in quanto espressione di debolezza.
Perché le riforme vanno fatte. Ma si possono fare efficacemente soltanto con grande realismo e, nello stesso tempo, con grande responsabilità, non frammentando, ma ricomponendo e rilanciando: interessi, forze produttive e culturali, categorie, generazioni diverse.
Questa capacità distingue i “leader”, che intercettano il consenso, tentando di amplificarlo, dagli “uomini di Stato”, che invece guidano i processi. Una bella sfida per Renzi, ma anche per un nuovo assetto del sistema politico (e istituzionale).
Ed è anche una bella sfida per un riconfigurato mondo cattolico italiano, di cui bisognerà riparlare.