Foto di Simone Caffarini
DIOCESI – Riportiamo l’omelia che il nostro Vescovo Carlo ha effettuato nel corso della celebrazione eucaristica in Sant’Antonio da Padova a San Benedetto in occasione della festività di San Francesco d’Assisi, patrono d’Italia.
“Veneriamo oggi uno dei più amati santi della Chiesa, nonché patrono d’Italia. La sua figura ha appassionato migliaia di giovani durante i secoli e li ha spinti ad imitarlo sulla via della povertà e della semplicità evangelica da lui abbracciata per amore di Gesù Cristo. Artisti, letterati, architetti… tutti rimasero affascinati e trassero ispirazione dalla sua altissima personalità spirituale. Si è così realizzata attraverso lui quell’esortazione che Egli avvertì come proveniente dal Signore Gesù stesso: “Francesco, va e ripara la mia chiesa”.
Sappiamo che all’inizio Francesco fraintese quell’invito, e pensò che si trattasse di riparare le mura diroccate della chiesetta di san Damiano. Non erano le mura da riparare, bensì la Chiesa spirituale e il suo modo di accogliere e di vivere il Vangelo. Le mura delle chiese, sia pure non senza difficoltà, si possono costruire e riparare con maggior facilità. Le mura possono essere belle o brutte, meglio se belle ovviamente. La Chiesa di Gesù non sono le mura, ma le persone che prendono sul serio la sua Parola e la vivono con coerenza ogni giorno. “Beati coloro che ascoltano la mia parola e la mettono in pratica” ha detto Gesù. Francesco ha preso questa affermazione di Gesù come suo programma di vita e l’ha condiviso con i suoi seguaci che vennero, quindi, chiamati “francescani”.
La Chiesa, e quindi i cristiani, del suo tempo, sembravano aver dimenticato l’autenticità e la genuinità del Vangelo. Francesco non si scagliò contro nessuno, ma dopo avere abbracciato personalmente il Vangelo con radicalità, si mise a predicarlo per le strade di paesi e città, usando la lingua popolare invece che la dotta lingua latina: voleva essere compreso dal popolo semplice e umile, ma amato dal Signore, da quei piccoli di cui parla Gesù nel Vangelo che abbiamo letto.
Non era prete, ma un cristiano che non poteva tenere solo per sé il tesoro che aveva scoperto: desiderava che tutti potessero gustare le fresche e ristoratrici acque della Parola di Dio che è Gesù. Rimase sempre obbedientissimo alla Chiesa, chiedendole l’approvazione per fondare il suo nuovo ordine mendicante.
Francesco amava Gesù con tutto se stesso, con la gioia del Vangelo nel cuore, non avendo, dopo essersi spogliato di tutto, alcun altra ricchezza che Lui su cui contare. Volle che anche i suoi frati vivessero così, amando ‘madonna povertà’ come lui la chiamava. Fu chiamato il ‘poverello di Assisi’: credo che sia uno dei titoli più belli che gli sono stati dati.
Libero da tutto per essere libero di andare e di fare tutto ciò che il Signore gli avrebbe chiesto. Nella perfetta letizia anche quando le condizioni di salute e quelle materiali si fecero molto pesanti e difficili, cantando “laudato sii mi Signore”, anche quando era diventato ormai cieco e gravemente ammalato. Volle morire nudo sulla terra nuda, affidato solo alla braccia del Padre celeste. La sua forza e il suo vanto è stato sempre e soltanto l’amore del Signore Gesù.
Visse una gioia contagiosa non per il godimento dei beni materiali (e la sua famiglia ne aveva in abbondanza, se avesse voluto) o per le gioie buone, ma passeggere, della vita, ma per la sua comunione profonda con Gesù e per il suo grande amore per ogni sua creatura, per gli esseri umani suoi fratelli prima di tutto e poi anche per tutti gli animali e per tutto il creato. La pace con tutti, con gli uomini e con tutto il creato, era il frutto della sua profonda e personale pace spirituale. Il suo cuore era quieto, perché riposava sempre in Cristo.
Francesco non fu l’uomo delle mezze misure, dei compromessi al ribasso, delle scappatoie dagli impegni della vita, della fede a buon mercato. Ciò che ha sempre impressionato è la sua radicalità, la sua ricerca del Vangelo ‘sine glossa’, cioè senza sconti o interpretazioni che diluissero
le esigenze di un amore senza limiti. Il “se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Le 9, 23) che Gesù diede come indicazione ai suoi discepoli, fu per lui la regola costante di vita.
Contagiò intere generazioni e continua ancora oggi ad attrarre giovani e anziani: l’ideale da lui vissuto e per il quale ha lasciato tutto non è un ideale del passato, superato dai tempi che noi siamo soliti chiamare ‘moderni’, pensando, magari inconsciamente, che essere moderno significhi gettare via o ritenere superato tutto quanto il passato ci ha donato e trasmesso. Credere e fidarsi del Vangelo non è cosa del passato, è la vera forza che continua a rinnovare il mondo. “Il cristianesimo che predichiamo non è invecchiato … la fede che portiamo dentro di noi non è un lago stagnante, ma una sorgente zampillante” diceva Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano.
Che cosa può dire a noi oggi san Francesco? Che cosa può darci per aiutarci a vivere bene e nella gioia la nostra vita di uomini del XXI secolo? Sicuramente ci direbbe che non dobbiamo vergognarci del Vangelo (cfr. Rom 1, 16), che lo dobbiamo portare senza timore nelle strade e nelle piazze delle nostre città e dei nostri paesi, anziché custodirlo nel segreto delle nostre chiese. Ci direbbe che non è né l’economia e né la ricchezza che salvano il mondo, ma le buone e sane relazioni fraterne che secondo l’insegnamento del Vangelo sappiamo costruire tra di noi.
Noi abbiamo relegato la fede e il Vangelo nel privato, quasi si trattasse di cosa non decente, cosa di cui non se ne deve parlare in pubblico. Noi diciamo: si tratta di cosa privata. Non ci vergogniamo praticamente più di nulla (basta leggere anche solo i quotidiani), tranne che di Gesù e del suo Vangelo.
Papa Francesco come Francesco, il poverello di Assisi, ci dice invece che dobbiamo aprire le porte per uscire dalla chiesa e riprendere ad andare nelle periferie geografiche ed esistenziali per annunciare la gioia del Vangelo a tutti: poveri e ricchi, sani e malati, giovani e adulti (soprattutto giovani). Una società senza Vangelo è una società più povera.
Se chiudiamo il Vangelo nelle nostre chiese o nel nostro privato o nei nostri gruppi e movimenti o nelle nostre parrocchie, noi abbiamo di fatto tradito il Vangelo e l’abbiamo ridotto a parole consolatorie o ad argomento per riunioni passatempo. Se pubblicamente ci vergogniamo delle nostre radici cristiane, di quelle radici che, tra l’altro, hanno costruito la nostra civiltà e riteniamo che progresso sia costruire una società indifferente ai valori spirituali, allora abbiamo bisogno di convertirci, perché “chi si vergognerà di me e delle mie parole, di lui si vergognerà il Figlio dell’uomo quando verrà nella gloria sua e del Padre” (Le 9, 26).
Una società senza Dio è una società che perde anche il senso e la dignità dell’essere umano. San Francesco questo lo aveva capito, ma soprattutto lo viveva giorno per giorno, giungendo fino ad abbracciare anche il lebbroso come fratello non da fuggire, ma da accogliere. Una società che non sa accogliere gli ultimi e i poveri, non solo è una società che non ha ancora capito l’amore di Dio per l’essere umano, ma è una società destinata al dominio del più forte sul più debole e questa è la radice di ogni ingiustizia.
San Francesco ci aiuti a riscoprire le strade per riportare la gioia del Vangelo e la sua forza di novità non solo dentro la Chiesa, ma anche dentro la nostra realtà sociale, economica e politica”.
+ Carlo Bresciani