“Essere prete significa anche vivere appieno la realtà che ti circonda, andare incontro alle persone che il Signore ti mette davanti, siano esse ricchi o emarginati, giovani o vecchi; ognuno è il nostro prossimo. L’importante è misurarsi con il Vangelo, è fare in modo che l’altare e la strada si incontrino. Perché Dio sia ovunque”. Don Claudio Burgio, classe 1969, ordinato sacerdote dal cardinale Martini nel 1996, fondatore dell’associazione Kairos che accoglie, tra Milano e l’hinterland, adolescenti e giovani soli, sbandati, stranieri o semplicemente “difficili”, si illumina quando parla dei suoi ragazzi. Con un consistente gruppo di famiglie, di esperti e di volontari, anima sette comunità che provano a ricostruire un percorso educativo e umano a chi, magari a 12, 15 o 18 anni, rischia già di essere per sempre messo ai margini della società. Nel “curriculum” di don Burgio non mancano spunti originali: il suo nome si accosta a quello della “Seleçao”, ovvero la squadra internazionale dei preti calciatori, “anche se adesso – dice – io ho appeso le scarpe al chiodo”. È, inoltre, direttore della Cappella musicale del Duomo di Milano, la più antica istituzione musicale della città.
Lei è autore di un libro che si intitola “Non esistono ragazzi cattivi”. Eppure da tanti anni è impegnato, assieme a don Gino Rigoldi, al carcere minorile “Beccaria”, dove arrivano adolescenti che di reati ne hanno commessi, eccome. Dunque?
“Di ragazzi difficili ne incontriamo tanti, nelle nostre case, a scuola oppure già sulla soglia dell’esclusione sociale. In questi anni di sacerdozio, prima per un decennio come coadiutore all’oratorio e ora con l’associazione Kairos, ho accostato quelli che definiamo ragazzi a rischio, bulli, baby-delinquenti, oppure devianti; giovani con alle spalle reati, più o meno gravi, dal furto alla violenza allo spaccio, che scontano giustamente la loro pena; e, ancora, stranieri non accompagnati, tossicodipendenti, o anche figli di buona famiglia andati fuori di testa perché incapaci di rispondere alle pressanti attese che i genitori riversano su di loro… Ho conosciuto ragazzi prigionieri di una società che impone modelli consumistici e individualisti; ragazzi in cattività, direi, non ragazzi cattivi. Perché nessuno nasce cattivo. Si tratta di ritrovare, da adulti, il coraggio della missione educativa, che parte dall’amore, dall’accoglienza, dall’ascolto, tirando fuori quella innata capacità di bene che ha ogni figlio di Dio”.
La sua esperienza parte dagli oratori di Lambrate e Vimodrone, dunque dalla parrocchia. E proprio nei giorni scorsi, a Vimodrone, il primo ragazzo straniero che avete accolto ha ricevuto la cittadinanza italiana. Una storia fra le tante?
“Ogni persona ha la sua storia. E Alain, che oggi ha 30 anni, sposato e papà di un bimbo, mi ha insegnato tanto. Era stato portato illegalmente in Italia da un manager calcistico senza scrupoli: nascosto in un appartamento a Milano, dopo qualche provino in squadre di rango non era riuscito a sfondare e, per questo, ributtato in strada, senza un soldo, senza un aiuto. È stato il nostro primo ragazzo, sostenuto da un gruppo di famiglie. Poi, col tempo, è sorta l’associazione Kairos, realizzando, di volta in volta, piccole comunità, inserite nel contesto della metropoli e di alcuni comuni della periferia. Dal 2000 a oggi sono passati 300 giovani, e al momento ne ospitiamo 52, affidatici dal tribunale o dai servizi sociali. Ci sono comunità di prima accoglienza, dove c’è una prima fase di conoscenza delle loro storie e di analisi psico-diagnostica; comunità progettuali dove, individuato un percorso personale di recupero e di reinserimento, si svolgono attività formative – di studio o di lavoro – e di volontariato. E poi ci sono le comunità per i maggiorenni, nelle quali si vive un’ultima fase di preparazione per poi tornare nella vita sociale e professionale”.
Don Claudio, ma lei si sente un “prete di strada”?
“No, non sono un prete di strada. Sono un prete. Punto. Non mi trovo dietro un’etichetta, dietro un paravento. Sono un presbitero della diocesi di Milano, abituato a incontrare le persone nelle nostre parrocchie e lì non ti puoi tirare indietro. Direi semmai che sono un prete che vive la strada. Dove conosci la gente, ti metti in discussione, cerchi il punto di incontro tra il Vangelo che predichi e la vita di ogni giorno. Perché il prete ha bisogno di passare – se così si può dire – dalla teoria alla prassi”.
Allora possiamo dire che è un prete di periferia?
“Nemmeno. Io dirigo il coro del Duomo – e la musica è un grande veicolo educativo -, e lì celebro la messa e confesso ogni giorno. Poi dedico un’altra parte del mio tempo ai ragazzi delle comunità Kairos, qui a Vimodrone, o a Segrate, quindi appena fuori dalla città. Direi che sono un prete che ha la fortuna di stare un po’ in centro e un po’ in periferia. Ovunque mi domando come possiamo passare da una cultura dell’io – che caratterizza fortemente la nostra realtà e il nostro tempo – alla cultura del noi. Del resto le giovani generazioni non sono ‘figli miei’ o ‘figli tuoi’, ma sono figli nostri; ogni ragazzo ha bisogno di sapere che c’è chi gli vuole bene, chi crede in lui, nelle sue capacità e potenzialità”.
Un’ultima domanda: non le sembra che a volte il cosiddetto mondo adulto sia un po’ fragile, impaurito, talvolta inadatto a educare i più giovani?
“Di paure ne abbiamo tante, molto spesso più che comprensibili, ragionevoli, perché la vita è complessa. Ma non dobbiamo farci scoraggiare. Io, ad esempio, ritengo che sia una grazia vivere in mezzo a questi ragazzi che mi sono affidati. Sto leggendo la vita con occhi nuovi e anche il mio essere cristiano si misura con la vita. Sì, è proprio una grazia”.