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Bosnia Erzegovina un voto su cui pesano povertà e divisioni

Di Michela Mosconi

È una Bosnia Erzegovina divisa e in piena crisi economica e sociale quella che il 12 ottobre prossimo sarà chiamata alle elezioni politiche. Un Paese ancora ferito dalle alluvioni del maggio e settembre scorso (che hanno segnato anche un momentaneo accantonamento delle proteste di piazza dei mesi di febbraio e marzo). Tre milioni e 200mila elettori sono attesi alle urne per eleggere, nel complicato scacchiere politico e amministrativo bosniaco (si parla di 113 soggetti politici, 65 partiti, 24 candidati indipendenti e 24 coalizioni), il nuovo governo che rimarrà in carica quattro anni. Saranno eletti i tre presidenti della Presidenza tripartita, i rappresentanti del Parlamento nazionale, i presidenti e i vicepresidenti delle due entità che formano la Bosnia Erzegovina (la Federazione croato-musulmana e la Repubblica Srpska, a maggioranza serbo-ortodossa). Contestualmente si andranno ad eleggere i membri dei Parlamenti delle due entità mentre la Federazione voterà anche per i consigli dei dieci cantoni che la compongono.

L’eredità di Dayton. 
Ancora una volta il Paese balcanico andrà ai seggi senza quelle modifiche costituzionali ritenute dall’Ue condizione indispensabile per agevolare il processo d’integrazione europea. Nello specifico la Costituzione, imposta con gli accordi di Dayton del novembre ‘95, prevede che i tre presidenti della Presidenza tripartita siano espressi unicamente dai tre gruppi nazionali maggioritari: serbo bosniaci, musulmano bosniaci, croato bosniaci. In sostanza, non è previsto che un ebreo, un rom o semplicemente un candidato che non appartenga a questi tre gruppi possa essere eletto. La Bosnia che oggi si appresta a rinnovare i propri leader, inoltre, è un Paese profondamente diviso dagli accordi di Dayton, che hanno creato una spartizione del territorio non solo su base etnica ma anche in una sorta di “signorie feudali” interessate ai propri affari. Negli anni ha proliferato una classe dirigente che non ha mostrato un reale e concreto interesse ad entrare nell’Ue. Un Paese stretto tra la morsa di una corruzione dilagante e di un tasso di disoccupazione che sfiora il 44%.

Amarezza e delusione.
 Ciò che anima i cittadini “è un sentimento di amarezza e delusione – dichiara monsignor Mato Zovkic, già vicario generale dell’arcidiocesi di Sarajevo e docente universitario -. È difficile che qualcosa possa cambiare con questa tornata elettorale. Abbiamo partiti etnici e nazionalisti a cui va benissimo lo status quo, loro non vogliono cambiamenti. Ma dobbiamo parteciparvi, è nostro dovere civile e religioso. Dovremmo forse avere un po’ più di coraggio per rovesciare i vecchi candidati e guardare a qualcuno che promette cose nuove, che ha un programma di reale cambiamento”. E l’Europa? “Ci troviamo in un circolo vizioso frutto delle decisioni delle grandi potenze europee e dell’America. I bosniaci devono fare la loro parte ma non devono essere lasciati soli. Questi Paesi dovrebbero prendere seriamente i problemi della Bosnia Erzegovina e fare pressione, fare qualcosa. Non basta trovare una soluzione interna”. 

Il rischio di tensioni etniche. Volti noti e meno noti si affacciano sulla scena politica bosniaca. La campagna elettorale stessa rischia di essere ricordata, oltre che per le promesse ridondanti dei candidati, anche per le tensioni tra i diversi gruppi etnici e religiosi. “L’aspetto etnico è tutto in politica – osserva Tim Judah, scrittore e corrispondente per ‘The Economist’ dai Balcani -. Serbi, croati e bosgnacchi (bosniaci musulmani, ndr) sono popoli connotati anche a livello religioso perché rispettivamente ortodossi, cattolici e musulmani. Tuttavia la religione in quanto tale non è più così importante come lo era prima. L’ex capo della comunità islamica, Mustafa Ceric, è in corsa per il seggio bosniaco musulmano alla presidenza tripartita ma non è quello più accredidato alla vittoria”. Una eventuale elezione di Ceric solleverebbe più di un interrogativo legato al rischio della trasformazione della Bosnia Erzegovina in uno Stato confessionale. “Non vi è alcun motivo – continua Judah – per ritenere che lo spostamento di qualche poltrona ai vertici, con quelle stesse persone in carica che in questi anni hanno portato la Bosnia allo stato terribile in cui versa, possa far cambiare qualcosa. Il potere in tutto il Paese è nelle mani di alcuni capi di partito. Potere che manterranno qualunque sarà l’esito delle elezioni”. 

A rischio bancarotta.
 Intanto lo Stato bosniaco è sull’orlo di una bancarotta. Situazione su cui pesano le recenti alluvioni che hanno allargato le sacche di povertà in cui versa la popolazione. Si prospetta, inoltre, per la Federazione croato-musulmana, un inverno tremendo col rischio di rimanere senza gas per riscaldarsi. Il recente accordo privato (18 settembre) tra il presidente della Repubblica Srpska (Rs), Milorad Dodik, e Vladimir Putin, invece, ha assicurato la fornitura di gas da Gazprom in maniera diretta alla sola entità a maggioranza serba e a un costo più basso. Una mossa strategica in vista delle elezioni e che potrebbe causare forti tensioni tra le due entità su cui aleggia lo spettro di una secessione, caldeggiata dal leader della Rs.

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