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“Paolo VI? Da bambino era una piccola peste!”

Di Renzo Allegri

Il Sinodo straordinario della famiglia si concluderà domenica 19 ottobre con un evento speciale: la cerimonia di beatificazione di Paolo VI presieduta da Papa Francesco con una solenne Messa in piazza San Pietro.

Bresciano, nato il 26 settembre 1897, Giovanni Battista Enrico Antonio Maria Montini, apparteneva a una famiglia di estradizione borghese. Il padre, Giorgio Montini, era un avvocato, e fu per diversi anni direttore del quotidiano cattolico “Il cittadino di Brescia” e per tre Legislature, deputato al Parlamento italiano nel Partito di Don Sturzo. Aveva due fratelli, Ludovico, avvocato e uomo politico, Francesco, medico.

Montini venne eletto Papa il 21 giugno 1963, succedendo a Giovanni XXIII. Rimase sul trono di Pietro fino al 6 agosto 1978, quando morì a Castel Gandolfo, ad 80 anni. Fu uno dei grandi Papi della nostra storia. Non molto popolare presso il grande pubblico, perché poco conosciuto, era per natura umile e riserva­to, ma a molti appariva “freddo e calcolatore”, “un intellettuale distaccato”.

Coloro che hanno a­vuto la fortuna di vivergli accanto e di conoscerlo bene, lo tratteggiava­no in modo del tutto diverso: un uomo amabilissimo, sensibile ed estremamente colto, generoso, pronto a rendersi utile nella di­screzione e nel dono totale. Un uomo di una grandissima affet­tuosità, cultore dell’amicizia. “La vita dell’amicizia è una seconda vita”, affermava. Jean Guitton, il grande accademico francese che gli fu amico, lo de­finì “un aristocratico dello spirito, un vero artista”.

Gli storici sono concordi nell’affermare che la sua importanza nel mon­do, per la sua cultura, i suoi documenti di grande valore anche sociale e per essere stato il timoniere del Concilio Vaticano II, è stata gigantesca. Lo hanno definito “Papa della Chiesa”, “Papa dell’umanità, “Papa della pace”. E’ il Papa che ha inaugurato il “ministero itinerante”, esaltato poi da Karol Wojtyla. Paolo VI ha compiuto infatti nove pellegrinag­gi fuori d’Italia, tra i quali spicca il viaggio in Terra Santa nel 1964. Nessun Pontefice, escluso San Pietro, era mai stato prima nella terra do­ve nacque Gesù.

Per la sua indole umile e riservata, non ha mai avuto la grande popolarità di massa che coinvolge le persone ai vertici della visibilità mondiale, come lo sono in genere anche i Papi. Da un punto di vista umano, della persona privata Giovanni Battista Montini si conosce molto poco.

Nel corso degli anni, come giornalista mi sono interessato varie volte di lui, intervistando chi lo conosceva bene per essergli vissuto accanto, e trovando ogni volta spunti interessantissimi e inediti, che mi affascinavano.

Nel 1968, venni a sapere che era ancora vivo il maestro di scuola elementare di Paolo VI, colui che gli aveva insegnato i primi elementi della scrittura, della lettura, che lo aveva aperto al mondo del sapere. Lo cercai e andai a trovarlo.

Si chiamava Ezechiele Malizia, abitava a Camignone, in provincia di Brescia. Era settembre, e il signor Malizia, aveva da poco compiuto 89 anni, ma non ne dimostrava più di 70. Mente lucida, sorriso smagliante e la pipa sempre accesa in bocca, parlava scanden­do chiaramente tutte le parole e ricercando con insistenza i vo­caboli più appropriati. Ricordava meticolosamente gli avvenimen­ti ai quali aveva assistito nel corso della sua lunga esistenza e li raccontava con dettagli da pignoleria. Camminava dritto, senza fatica, e la sua mano, quando accendeva la pipa o si portava alle labbra un bic­chiere di vino, era ferma come quella di un giovanotto.

“Avevo 24 anni quando la mamma di Giambattista Montini mi portò il suo bambino che doveva cominciare la prima clas­se elementare”, mi disse Malizia. “Ero maestro al Collegio Arici, a Brescia. Co­noscevo la famiglia Montini per­chè avevo già avuto come scola­ro il fratello maggiore di Giovanni Battista, Ludovico. Il futuro Papa fece con me la prima e la seconda elementare”.

La domanda che gli rivolsi nel corso della lunga conversazione erano quelle di circostanza. Gli chiesi come si comportava a scuola, se era bravo, intelligente, disciplinato e se per caso fin da allora si poteva intuire che avrebbe intrapreso la carriera ecclesiastica.

Ezechiele Malizia mi sorprese affermando categoricamente: “Oh no, non avrei mai pensa­to che sarebbe diventato sacerdote e poi Papa. Da quando lo vidi per la prima volta sono trascorsi esattamente 65 anni. E, dopo tanto tempo, non è facile ricordare tutto. Comunque, il piccolo Giambattista non l’ho mai dimenticato. E sa perché?  Perché si distingueva fra tutti, e non per essere un bambino tranquillo. Era una piccola peste, un ‘motoperpetuo’. Ma­grolino, sparuto, sembrava avesse l’argento vivo addosso. Era proprio vivacissimo, di una vivacità che qua­si preoccupava. La mamma, quando lo portò a scuola, venne  a raccomandarmelo. Temeva che nessuno riuscisse a tenerlo a fre­no. Devo dire che faticai  anch’io, tanto è vero che per te­nerlo fermo e perchè stesse at­tento alle lezioni, fui costretto a farlo sedere nel primo banco, proprio davanti alla cattedra: così era continuamente sotto controllo”.

“I bambini, a quei tempi – raccontò il maestro – entravano in aula alle nove del mattino e uscivano a mezzogiorno, riprendevano alle 14 e tornavano a casa alle 16. Nessun intervallo era permesso durante le lezioni. Fui il primo a trasgredire i regolamenti e a portare i miei alunni, dopo una ora e mezzo di lezione, nel cor­tile della scuola perché, giocando, scaricassero la loro tensione e poi fossero più attenti.  Anch’io giocavo con loro. Giambattista era uno dei più scatenati. Lo lasciavo correre co­me una trottola, così si sfogava e poi in aula stava attento”.

“Di­rei che i risultati furono ottimi, almeno cosi furono giudicati dalla madre di Giambattista che, poi, per ringraziarmi, mi invitò per una settimana nella sua vil­la a Verola Vecchia. Credo che anche Giambattista abbia capito che il metodo da me usato era proprio quello giusto per lui”.

Dopo le scuole elementari Malizia non vide più Giambattista, “ma lui non si dimenticò mai di me. Quando fu eletto Papa, andai a trovarlo, e lui, rievocando i tem­pi della scuola elementare, mi disse: ‘Caro maestro, si ricorda quando mi dava i piz­zichini nelle orecchie perchè ero sempre distratto?'”.

“Ero commosso e anche confuso. Non pensavo che il Papa si ricordasse di me. Invece fu di una gentilezza incredibile. Continuava a parlare e a ricordare, e, per l’emozione, mi pareva di essere addormentato e di sognare. Restai con il Papa più di mezz’ora. Ad un certo punto, mi mise intorno al collo un collare con uno stemma e mi disse alcune cose. Non capii niente. Quando uscii, i monsignori che mi avevano accompagnato, mi chiamavano ‘Commendatore’. Mi infor­mai, e seppi che ii Papa, dandomi quel collare, mi aveva nominato ‘Commendatore di San Silve­stro'”.

“Non potevo crederci. Io, commendatore! Il colmo per me, che sono figlio di un contadino. Mio padre, fino all’età di 20 anni, lavorava per i conti Duco. Poi partì, per combattere con l’eser­cito di Vittorio Emanuele II. Fece le campagne del 1859, del 1860 del 1861. Cominciò come soldato semplice e tornò a casa con il grado di capitano. Durante la guerra del 1915, io volli imitare mio padre. Ero figlio unico e quindi esonerato dal prestare servizio militare, ma mi arruolai volon­tario. Tornai a casa con il grado di capitano, anch’io. Sono glorie di famiglia alle quali ho sempre tenuto molto, ma questa onorifi­cenza che mi ha dato il Papa, ri­cordando i giorni della sua in­fanzia, quando veniva a scuola e io gli ‘pizzicavo le orecchie’ perchè stesse attento e non sba­gliasse a scrivere le lettere del­l’alfabeto, è il titolo onorifico del quale vado più fiero”.

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