Negli ultimi mesi il bombardamento di notizie negative sull’economia italiana è stato costante. Dall’altro lato, la Germania sembrava inanellare record su record quand’ecco che, in pochi giorni, si è saputo che anche la produzione tedesca è in calo e il “Paese-guida” dell’Eurozona rischia la recessione. Per capire cosa sta succedendo, il Sir ha intervistato l’economista Alberto Quadrio Curzio, vice-presidente dell’Accademia nazionale dei Lincei.
Da tempo sui media si parla di questa crisi definita peggiore di quella del ‘29. È proprio così?
“Fare un paragone tra crisi è sempre molto difficile. Tuttavia i paragoni possono servire per enucleare gli interventi per superare le crisi stesse. La crisi che l’Europa e l’Eurozona stanno vivendo è grave, perché nei 5 anni 2009-2013, il Pil dell’Eurozona è calato di quasi 2 punti percentuali. Nello stesso periodo il Pil degli Usa è cresciuto del 7,5%. Se guardiamo alla disoccupazione, quella dell’Eurozona è aumentata di quasi 3 punti e quella degli Usa è scesa di quasi 3 punti. Questo significa che le politiche poste in essere dall’Europa per contrastare la crisi stessa non hanno avuto efficacia, anzi sono state dannose”.
Ma è tutta “colpa” della Germania, che insiste sulle regole e sui bilanci in pareggio e blocca ogni ipotesi di “flessibilità”?
“La risposta è complessa. Anzitutto occorre dire che la situazione in cui l’Eurozona si è venuta a trovare era del tutto imprevista. Una crisi così grave non era messa in agenda quale possibilità, né l’Europa aveva gli strumenti a disposizione di altri Paesi per affrontare crisi di questa entità. Quindi l’Europa si è mossa con una ‘navigazione a vista’, come per esperimenti. Non c’è dubbio che, nella scelta di tali ‘esperimenti’, la Germania ha avuto un ruolo predominante”.
Cosa intende dire?
“Che la Germania è come rimasta ‘ipnotizzata’ da un solo aspetto della crisi, e cioè la vulnerabilità dei debiti sovrani dei cosiddetti ‘Paesi periferici’ quali Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia. La convinzione tedesca è che questa vulnerabilità fosse dovuta esclusivamente alla cattiva gestione delle finanze pubbliche di quei Paesi e che quindi risanando le finanze pubbliche con politiche fiscali drastiche, direi quasi draconiane, tutto sarebbe andato a posto”.
E invece?
“Non ha tenuto in considerazione che quelle politiche fiscali così draconiane avrebbero determinato effetti gravi sulla dinamica del Pil e quindi sui rapporti tra le grandezze di finanza pubblica e il Pil stesso, oltre che sui livelli occupazionali. Si è così creato un avvitamento negativo, tra stagnazione del Pil, disoccupazione, crollo della domanda interna e successiva ulteriore caduta del Pil. Ci si potrebbe chiedere: ma perché la Germania non si è resa conto di questo? Anzitutto perché la sua situazione di partenza era molto più buona di quella di tutti gli altri Paesi e addirittura con la crisi andava migliorando. Inoltre, la crisi stava favorendo la Germania. E ciò consolidava la convinzione che la ricetta fosse una sola: la paura del crollo dei titoli periferici spingeva una enorme quantità di capitali verso i titoli tedeschi, con effetti sui tassi che scendevano, il credito che costava meno e la possibilità di investire a costi sempre più bassi”.
Ma ora sembra che questo meccanismo non funzioni più nemmeno per la Germania. Come mai?
“Siccome buona parte delle esportazioni tedesche andavano verso il resto dell’Eurozona, quando la domanda interna e la fiducia degli altri Paesi dell’Eurozona si sono via via affievolite, anche le esportazioni tedesche hanno cominciato a perdere colpi. Oggi, come si vede, anche la Germania soffre”.
Non è giunto il momento che la Germania mobiliti gli enormi surplus monetari e commerciali di cui dispone?
“La Germania detiene titoli esteri per il 40% del suo Pil e ha un avanzo commerciale annuo di circa 250 miliardi di euro. Il che significa che la sua domanda interna non cresce perché ha troppe riserve inutilizzate. Il Fondo monetario internazionale parla di avanzo delle partite correnti per il 7% del Pil: cioè un Paese che vive sull’export e ha una domanda interna fiacca. Ora però arrivano i primi segnali che l’‘epoca felice’ è agli sgoccioli”.
Che fare a questo punto?
“Draghi ha fatto un ottimo lavoro, il massimo che poteva avendo la Germania contro. Ora occorre un rilancio degli investimenti strutturali in grandi opere europee. Penso a reti elettriche unificate, banda larga, sistema dei porti ecc. Lo strumento giusto è quello del partenariato pubblico-privato: il ‘pubblico’ perché ha una gittata temporale molto lunga, il ‘privato’ perché garantisce maggiore efficienza e redditività. Sin dal 1992 in un saggio scritto con Romano Prodi avevo indicato gli ‘Euro Union Bond’. Ora lo dicono in tanti. Speriamo che si arrivi presto a una decisione in tal senso”.
Renzi ha detto pochi giorni fa che l’Italia ha bisogno di “reputation”. Non è che forse anche la Germania debba farsi una reputazione diversa dall’attuale?
“Si tratta di due casi completamente diversi. Vorrei ricordare una frase di Helmut Kohl di alcuni anni fa, cioè che bisogna che la Germania diventi europea e non che l’Europa diventi tedesca. Da parte mia, potrei aggiungere: bisogna che l’Italia diventi europea e non che l’Europa diventi italiana. Fuori dalle ‘battute’, le ragioni di questa convergenza per Italia e Germania sono diverse, però è chiaro che tutti e due i Paesi hanno bisogno di più Europa”.
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