I genocidi, l’annientamento sistematico dell’“altro” solo perché diverso da me, accompagna tristemente la vicenda dell’umanità. Ma oggi si ripresenta, tale e quale, con la stessa violenza, con lo stesso spregio per la vita, in una cittadina di confine tra Siria e Turchia, dove l’esercito dell’Is ha accerchiato la popolazione di origine curda che vorrebbe solo continuare a vivere in pace, come ha fatto in quello stesso luogo da tempo immemore. L’Is assedia la città – come si faceva nei tempi antichi o nel Medioevo, come si è fatto a Srebrenica – per poi sterminare ogni bambino, ogni donna, ogni anziano, ogni uomo che vi abita.
Staffan de Mistura, inviato Onu per la Siria, parla di una “popolazione allo stremo”, con 700 persone, soprattutto vecchi, intrappolati nell’enclave curda, oltre a diecimila persone ammassate sul vicino confine, sperando di potersi porre in salvo in Turchia.
Kobane oggi dice al mondo interno, alle grandi potenze e a ciascuno di noi, che la logica aberrante dell’odio e della prevaricazione abita ancora nei nostri cuori e nel nostro mondo, ed esplode in Ucraina come in Terra santa, in tante regioni dell’Africa, in Medio oriente, in alcune aree dell’America latina.
Kobane ci ricorda che mentre è in corso “la terza guerra mondiale, ma a pezzi”, come ha affermato Papa Francesco, abbiamo sotto gli occhi il pericolo imminente di una “nuova shoah, a pezzi”, che fa a pezzi l’uomo, i popoli, la dignità umana, dunque la civiltà stessa.
Non si può lasciar sola Kobane. I leader politici e i capi militari sapranno trovare il modo per intervenire, ma da loro ci si aspetta che non stiano con le mani in mano. Come a Srebrenica.