Senti “Kobane” e subito pensi a Srebrenica. E un brivido corre giù per la schiena. E rivedi i cadaveri e le fosse comuni di quella tragica estate del 1995; ripensi alle oltre 8mila vittime del più grande genocidio europeo del secondo dopoguerra, ai danni dei musulmani bosniaci ad opera delle milizie serbo-bosniache di Ratko Mladic. E poi la mente corre un po’ più indietro, al Ruanda, al massacro dei Tutsi ad opera degli Hutu, con 800mila morti stimati nell’estate del 1994. E da lì la mente vaga tra i ricordi e le pagine di storia, fino alla Cambogia, al Sudan, all’Iraq… Fino ad Auschwitz.
I genocidi, l’annientamento sistematico dell’“altro” solo perché diverso da me, accompagna tristemente la vicenda dell’umanità. Ma oggi si ripresenta, tale e quale, con la stessa violenza, con lo stesso spregio per la vita, in una cittadina di confine tra Siria e Turchia, dove l’esercito dell’Is ha accerchiato la popolazione di origine curda che vorrebbe solo continuare a vivere in pace, come ha fatto in quello stesso luogo da tempo immemore. L’Is assedia la città – come si faceva nei tempi antichi o nel Medioevo, come si è fatto a Srebrenica – per poi sterminare ogni bambino, ogni donna, ogni anziano, ogni uomo che vi abita.
Staffan de Mistura, inviato Onu per la Siria, parla di una “popolazione allo stremo”, con 700 persone, soprattutto vecchi, intrappolati nell’enclave curda, oltre a diecimila persone ammassate sul vicino confine, sperando di potersi porre in salvo in Turchia.
Kobane oggi dice al mondo interno, alle grandi potenze e a ciascuno di noi, che la logica aberrante dell’odio e della prevaricazione abita ancora nei nostri cuori e nel nostro mondo, ed esplode in Ucraina come in Terra santa, in tante regioni dell’Africa, in Medio oriente, in alcune aree dell’America latina.
Kobane ci ricorda che mentre è in corso “la terza guerra mondiale, ma a pezzi”, come ha affermato Papa Francesco, abbiamo sotto gli occhi il pericolo imminente di una “nuova shoah, a pezzi”, che fa a pezzi l’uomo, i popoli, la dignità umana, dunque la civiltà stessa.
Non si può lasciar sola Kobane. I leader politici e i capi militari sapranno trovare il modo per intervenire, ma da loro ci si aspetta che non stiano con le mani in mano. Come a Srebrenica.