Di Francesca Cipolloni
MARCHE – I Vescovi delle 13 Diocesi delle Marche e i 628 delegati invitati al 2° Convegno ecclesiale marchigiano di novembre 2013 s’incontrano, come preannunciato, Sabato 18 ottobre prossimo presso il Centro Giovanni Paolo II di Loreto per dare vita al progetto di pastorale missionaria, a conclusione di un lungo e partecipato cammino. Don Paolo Asolan è stato chiamato dalla Conferenza Episcopale Marchigiana a facilitare questo percorso data l’ampia e significativa esperienza maturata negli studi, nell’attività presbiteriale, nell’insegnamento e in luoghi di lavoro dove ha sperimentato attività di pastorale sociale. Nato il 22 luglio 1967 a Cittadella (Padova) è stato ordinato sacerdote il 15 maggio del 1993; incardinato nella diocesi di Treviso ha svolto svariati mandati di ministero, in particolare di responsabilità vicariale per la pastorale sociale e del lavoro (1993-1999). Attualmente, tra altri importanti incarichi, è consultore del Pontificio Consiglio Cor Unum (2010) e Cappellano nell’azienda comunale ACEA di Roma (2013). Gli abbiamo rivolto alcune domande per focalizzare alcune questioni che l’Evangelii Gaudium pone in rilievo per avviare una nuova pastorale missionaria nella Chiesa universale.
– Il linguaggio di papa Francesco, così peculiare e riconoscibile, è considerato in grado di raggiungere più facilmente l’interiorità delle persone. Antonio Spadaro, direttore di “Civiltà Cattolica” lo chiama linguaggio della prossimità e il vescovo di Albano mons. Marcello Semeraro, nell’introduzione all’edizione dell’EG della San Paolo, lo ritiene addirittura un modello da utilizzare nella nuova evangelizzazione. Concorda con questi giudizi?
Diffido sempre delle semplificazioni: dovendo studiare ciò che il Papa dice – non solo a Santa Marta – ci si accorge in realtà di più registri, naturalmente adeguati di volta in volta ai diversi interlocutori. Ciò che colpisce e va nella direzione che lei dice sono le omelie e più in generale i discorsi rivolti al popolo, dove spiccano i tratti dell’immediatezza, dell’immediata comprensibilità (anche immaginativa), della comprensione della vita concreta e di ciò che la rende bisognosa di essere compresa e vissuta alla luce di Gesù. Molti hanno l’impressione, ascoltandolo, che il Papa li conosca personalmente e stia parlando proprio di loro. Perciò mi commuove a volte riconoscere nelle sue parole e nel suo stile attenzioni ed esperienze sottostanti che hanno a che fare con vissuti dolorosi, difficili o tentati dal ripiegamento su di sé. In questo senso è uno stile di linguaggio proprio di chi ama la vita delle persone a cui parla, e questo è l’inizio di ogni processo di evangelizzazione. Nuova o vecchia che sia.
– L’Esortazione apostolica giudica l’attività missionaria della Chiesa la massima sfida e indica come esempio da imitare l’esperienza latinoamericana per passare da una pastorale di semplice conservazione a una pastorale decisamente missionaria. Ne sarà capace la Chiesa italiana?
Non sono un oracolo e come tutti vedo elementi che farebbero rispondere di sì e altri che invece potrebbero scoraggiare una prospettiva del genere. Il Concilio stesso insegna che la chiesa è “per sua natura missionaria”: un vita che non circola, muore. La vita di Cristo in noi ci è stata donata per dare vita ad altri; questa è la radice della missione, tolta la quale c’è morte, noia, e un’evidente incapacità di comprendere la necessità stessa della fede. Di fatto, ancora vent’anni fa, a Palermo, il Convegno nazionale si espresse risolutamente per una pastorale missionaria, affermando: “il nostro non è il tempo della semplice conservazione dell’esistente, ma della missione”. Dunque la riflessione è avviata da tempo in tutta la Chiesa e nella Chiesa italiana in particolare. Chi opera nel vivo delle comunità cristiane lo sa, come sa anche che se la diagnosi è chiara e condivisa, non così la terapia o il progetto circa il futuro – quest’ultimo da elaborare nella piena e assoluta fiducia che (come disse Giovanni Paolo II a Palermo, in occasione dello stesso convegno) “a Cristo appartiene il futuro non meno del passato”. L’esortazione rappresenta un passaggio ulteriore, offre chiaramente delle chiavi per l’azione e soprattutto uno stile sul quale sarebbe importante convergere. Certo, si tratta di una conversione, e tutte le conversioni richiedono tempo, umiltà, capacità di riconoscere i propri peccati, esperienza della Grazia e della redenzione del Signore. Sia in quanto singoli, sia in quanto comunità.
– Il rinnovamento della Chiesa emerge come un’altra esigenza insopprimibile, essenziale per una coerente pastorale in conversione. L’EG richiama l’appello al rinnovamento di Paolo VI alla Chiesa intera, per approfondire la coscienza di se stessa. Il Concilio Vaticano II ha presentato la conversione ecclesiale come l’apertura a una permanente riforma di sé per fedeltà a Gesù Cristo. Senza vita nuova e autentico spirito evangelico , qualsiasi nuova struttura si corrompe. E’ la via per una pastorale credibile?
A patto che non si riduca a uno slogan retorico. La conversione non è un obiettivo esterno, estrinseco, da raggiungere facendo cose. È un modo di essere che consiste nel lasciarsi dare la forma di Cristo, avendo del suo mistero un’intelligenza sempre maggiore, incarnandolo sempre più nella vita quotidiana, così come essa si presenta e ci è data. In questo mondo e con queste sfide, che sono la strada buona sulla quale siamo stati posti a camminare. In questo senso, abbiamo certamente bisogno della Tradizione (non tutto il passato è improponibile o da buttare: anche lì lo Spirito di Cristo ha agito e ha dato forma alla vita dei cristiani) non meno che del futuro e della novità (lo Spirito, scrive Paolo VI in Octogesima Adveniens 37, “scompiglia senza posa gli orizzonti dove la sua intelligenza ama trovare le proprie sicurezza e sposta i limiti dove vorrebbe chiudere volentieri la sua azione”). Dovremmo sbilanciarci verso questa novità: questa, in sintesi, potrebbe essere il senso della “nuova” evangelizzazione. L’aggettivo non è ornamentale. Tuttavia con la cura che ci viene dalla consapevolezza che nessun corpo cresce per strappi, ma per sviluppo interno. Questo lavoro lo fa lo Spirito, noi lo possiamo/dobbiamo assecondare con molto amore e molta fiducia. Egli sa dove ci sta portando.
– Come è possibile comunicare efficacemente alle persone il cuore del messaggio di Gesù Cristo? Papa Francesco mette in guardia dai rischi che derivano, oggi, dalla velocità della comunicazione e dalla selezione interessata dei contenuti che estrapolano aspetti secondari senza chiarire e spiegare il contesto. Tutto va sempre collegato al nucleo essenziale del Vangelo che gli conferisce senso, bellezza e attrattiva. Quali consigli offrire nel rapporto con gli strumenti della comunicazione anche nella scelta dei messaggi?
In realtà sono curioso di sentire come il convegno risponderà a questa domanda. Ne sono io stesso molto interessato. Ci sarebbero infinite risposte possibili a una domanda del genere, e più in generale al posto che occupano di fatto oggi per noi gli strumenti della comunicazione, i quali hanno prodotto e vanno producendo una vera e propria mutazione antropologica, cioè un diverso rapporto dell’essere umano con se stesso, i suoi simili e il mondo in generale. Dobbiamo cioè chiederci non solo come noi possiamo usare questi strumenti, ma anche – in un certo senso – come essi usano noi, come ci stanno manipolando e come essi stessi siano soggetti a un cammino di conversione. Resto del parere, tuttavia, che nelle cose della fede nessuno strumento tecnico, nessuna comunità virtuale, possa sostituire la relazione da persona a persona. La sola che consente una circolazione di vita e non solo di informazioni. Gesù Cristo è un avvenimento che accade, ricordò molto bene papa Benedetto all’inizio della sua prima enciclica: il che significa che non è un’informazione che si trasmette con qualche bit.
– Parrocchia, istituzioni ecclesiali, movimenti e associazioni, quale cammino intraprendere per aiutare un nuovo “fervore evangelizzatore” ?
Anche questa è una domanda alla quale ogni diocesi immagino dovrà rispondere. Se posso suggerire una priorità, una “cosa” da attivare per prima rispetto ad altre, è quella di avviare occasioni e cammini di effettiva conoscenza e fraternità tra cristiani, dove si riesca a mettere in moto uno stile di riconciliazione e di effettiva amicizia. Questo sarebbe già un grande risultato, un vero dono dello Spirito Santo. Il fervore, o meglio la gioia dell’evangelizzazione, la capacità di vedere e amare il prossimo, hanno a che fare con esperienze concrete e non saltuarie di condivisione, di passione per la vita degli altri sentita (e non solo intellettualmente saputa) come propria, come parte della propria. Sia ad intra che ad extra della Chiesa. Ho l’impressione che nelle vostre diocesi si facciano molte attività, ma che non sempre generino comunione, entusiasmo o quel camminare insieme che aiuta a portare lievemente i gioghi della vita e/o del ministero pastorale.
– Tra gli altri temi e questioni per orientare una nuova tappa evangelizzatrice, Papa Francesco indica l’omelia e la sua preparazione. Quale salto di qualità dovrebbe compiere tutta la Chiesa per riportare l’immensa potenzialità della Parola di Dio al centro della sua azione?
Non mi stancherei di chiarire che Parola di Dio è Gesù Cristo, il Verbo fatto carne. Non si tratta di mettere al centro un libro, ma di eseguire quella sinfonia della Parola di cui parla l’esortazione Verbum Domini di papa Benedetto. Proprio in quel documento si chiede di “animare biblicamente la pastorale”: il che non significa semplicemente attivare corsi biblici o portare il vangelo casa per casa, o sostituire la Lectio divina alle devozioni tradizionale. Anche questo! Ma questi casomai sono strumenti grazie ai quali i grandi paradigmi della storia della salvezza vengono conosciuti e reinterpretati da noi, dalle nostre vite personali e comunitarie. Sono vie per le quali il pensiero, lo sguardo e il cuore del Signore entrano e agiscono in noi. Perciò l’omelia rimane fondamentale per capire in che senso le Scritture proclamate non solo parlino a noi ma parlino di noi.
– Colpisce il forte richiamo sulle modalità da seguire nella pastorale missionaria, la quale esige di abbandonare il comodo criterio del “si è fatto sempre così.” Occorrerebbero forti ripensamenti e nuove scelte creative. Quali suggerimenti potrebbero essere forniti su questo aspetto essenziale per una maggiore efficacia dell’azione della Chiesa?
Ne suggerisco due. Il primo è smettere sempre più di ripetere quello che si è sempre fatto; e non per passare ad altro o a tutt’altro, ma per discernere che cosa adesso generi l’incontro tra noi e il Signore, noi e i nostri fratelli. Che cosa effettivamente ci fa crescere nella carità verso Dio e verso il prossimo. Credo che in tempi di crisi il potere vada diffuso e non concentrato, e che dunque sia necessario provare e verificare con saggezza nuove esperienze. Non solo provare: provare e verificare. Con quella saggezza che è figlia della carità. Il secondo è un maggior apertura sui temi sociali, sull’assunzione di quei problemi che – non affrontati – impediscono, rallentano o rendono incredibile il cammino della fede. Tali problemi noi li condividiamo con tutta la gente alla quale siamo mandati in missione, e non sono mai solo risolvibili con soluzioni tecniche, perché di mezzo c’è sempre l’uomo e il suo rapporto con la società, con il lavoro, con il denaro, con la cultura. Se non ci misuriamo con questa vita concreta, la fede resta sempre a latere. Dobbiamo assumerne i ritmi, le modalità, “avviare processi” come dice EG, e capire che modelli di vita quotidiana il vangelo è capace di esprimere in queste nostre condizioni. Su questi ambiti siamo obiettivamente latitanti, pur con generose eccezioni. Penso al lavoro delle vostre Caritas.
– Nell’incontro di sabato 18 ottobre lei avrà il ruolo significativo di “facilitatore”, di aiutare le Chiese locali delle Marche a concludere un itinerario snodatosi in due anni pastorali per disegnare l’azione futura dell’attività missionaria di una Chiesa in uscita, pienamente aderente alle sollecitazioni dell’Evangelii Gaudium. Come affronterà tale compito e quali indicazioni suggerirà ai Vescovi e ai 628 delegati invitati al convegno?
Sono naturalmente sorpreso da tanta fiducia. Ho letto molto del lavoro che avete fatto al Convegno ecclesiale. Penso di poter dare un piccolo contributo, e cercherò di individuare quello che di essenziale e di comune si può ricavare da tanto lavoro e da tanto confronto. Ci sto lavorando, confido nella vostra benevolenza. (a cura di Sauro Brandoni)