I lavori e gli intenti del Sinodo rimbalzano in monastero. La Chiesa sta cercando di rispondere allo Spirito nella storia del proprio tempo. Tutte noi proveniamo da una famiglia che ci ha cresciute ed educate. Non solo ma vogliamo vivere la chiamata monastica come grembo familiare.
Le tematiche, i punti roventi non fanno altro che susseguirsi.
È innegabile che si notino schieramenti, prese di posizioni, dispiace riscontrare invece l’arroccamento, forse ideologico, di alcuni gruppi.
L’esigenza più avvertita è quella del potersi esprimere chiaramente, con trasparenza, senza dover ricorrere a infingimenti.
Se conta quanto si dice, conta ancora di più che lo si dica da un’esperienza vissuta, sperimentata sulla propria pelle, giorno dopo giorno.
Il dato tipico odierno è quello della coscienza che si interroga non a vuoto o a suon di canoni o peggio seguendo i propri impulsi, ma della coscienza educata, orante, che si pone dinanzi al Dio Padre e vuole vivere la sfida evangelica.
Non in chiave di promozione della donna, non in chiave di emancipazione e di liberazione dai paletti di una morale ecclesiastica che non abbia saputo cogliere l’importanza della vita di coppia. Bensì in una dimensione in cui, accogliendo lo stile del nostro mondo, così com’è, sa distinguere quanto proviene da colui che sa dividere invece di unire.
Quando la relazione che intercorre nella coppia e nella coppia aperta all’annuncio che si chiama Gesù Cristo, è chiamata ad assumersi le proprie libere scelte e le proprie responsabilità, è riduttivo parlare di seconde nozze, di divorzi e di comunione ai risposati o ai divorziati.
Tutto si sposta più in là: il Vangelo è esigente e richiede di non vendersi a quanto è più trendy e distrugge la persona.
In fin dei conti, più che chiedere un sì o un no ai padri sinodali, appare vincolante chiedere come leggere la propria vita di coniugati e di genitori alla luce della Parola per non cadere in parole e in susseguenti prassi che via via si discostino sempre più dal modello evangelico.
Indubbiamente i costumi modificano il pensiero e il vivere quotidiano, ma inducono anche a una scostumatezza, spia e segno di irresponsabilità, di una vita spesa all’insegna della futilità, alla ricerca di mete che nulla hanno a che spartire con vite ed esistenze che si lascino nutrire dal Vangelo.
Figli che si vogliono assemblati a proprio piacere come mobili.
Coppie che gridano al loro amore finché non evapora.
Nuclei familiari disgregati o aggregati per ondate di relazioni successive.
Tutto questo risponde al Vangelo o all’andazzo corrente?
Ritornando alla coscienza personale più che reclamare dei diritti, dovrebbe chiedersi quanto sia in essa costitutivo nella relazione con l’Altissimo e nella comunione con la Chiesa.
Indubbiamente la misericordia distingue il cristiano, è respiro della sua vita ma non deve essere assimilata ad un buonismo che tutto azzera. Non può perdere i suoi contorni di coscienza credente.
I padri sinodali rappresentano paesi, usanze ed esperienze diversissime, se a tutti è dato e concesso rispetto e fraternità, quanto però può dirsi elemento di comunione nella Chiesa cattolica? Quanto è tanto umano da potersi dire evangelico?
Non si gioca sulla manica stretta o sulla manica larga, si gioca sulla stessa manica che o è evangelica o non lo è. Pur accettando che esistano esperienze vitali che solo l’Altissimo sa leggere, situazioni che è impossibile giudicare e che vengono lasciate solo nelle mani del Creatore.
Tuttavia, ci attendiamo indicazioni precise che sappiano educare la coscienza, rendere la coppia sorgente di amore e grembo fertile.
Non basta parlare di aperture e concessioni: è derisorio. Bisogna proporre la nostra ottica evangelica, in comunione con la Chiesa, accettando le diversità ma mantenendo l’identità.
Francesco questo sa farlo e lo Spirito lo illuminerà. Ci farà uscire da un guazzabuglio in cui rischiamo di impantanarci invece di distendere le ali della coscienza verso i prati in cui il Buon Pastore ci fa riposare.