“I potentati legati alle industrie militari sono assai influenti. L’Europa ha dei campioni di industrie militari che non temono il confronto con quelle statunitensi”. Ne è convinto Francesco Vignarca, coordinatore delle attività nazionali della Rete Italiana per il Disarmo. In giro per l’Italia tra presentazioni di libri e convegni, Vignarca fa il punto della situazione in Europa dopo le raccomandazioni di Barack Obama affinché siano potenziati i budget militari e venga perseguito un riarmo nel continente.
Qual è stata la risposta dell’Europa all’appello del presidente degli Usa?
“Il solito gioco delle parti. Arrivare allo standard del 2% di spesa militare non è una richiesta nuova. Se ne parla già dal 2002, dopo la revisione dell’impianto della Nato nel summit di Praga, ma i Paesi non hanno fatto nulla per rispettarla. Anche in questo caso non vedo una reale intenzione di cambiare le cose, perché solo in pochi all’interno della Nato si attengono alla soglia. Tutti i grandi Paesi stanno al di sotto. Se, ad esempio, l’Italia volesse raggiungere il 2% vorrebbe dire che Renzi dovrebbe trovare stabilmente circa 10 miliardi di euro”.
Chi spende di più per le armi in Europa?
“Turchia e Grecia, per ragioni storiche e politiche. Ed è paradossale se si pensa che sono due Paesi della stessa alleanza e che spendono tanto perché si guardano in cagnesco tra loro. La spesa militare è guidata da motivazioni politiche e non tecniche. Quando la Grecia si trovava sotto la stretta della Troika, Francia e Germania chiedevano sacrifici ma pretendevano che continuasse ad essere alta la spesa militare perché i tedeschi dovevano vendere i sommergibili e i francesi le navi. Anche gli Stati Uniti, che hanno ridotto gli investimenti militari, sostengono economicamente in maniera integrale l’Iron Dome israeliano. I contribuenti americani pagano di tasca loro la sicurezza di Israele. Restando in Europa, Gran Bretagna e Francia hanno una spesa militare di poco maggiore rispetto alle altre nazioni. Entrambe sono potenze nucleari e la gestione di armamenti nucleari richiede risorse superiori”.
La formazione di un esercito europeo potrebbe essere una soluzione?
“L’esercito europeo dovrebbe essere il passo intermedio verso il disarmo integrale quando, come dice il profeta Isaia, ‘forgeranno le loro spade in vomeri’. Le ragioni sono doppie. La prima è di natura politica: con una propria forza militare, l’Europa potrà avere una valenza diversa anche in termini di politica estera. Con le pur numerose pecche, l’Europa ha infatti messo in atto dei percorsi politici che le stanno permettendo di gestire i conflitti interni in maniera non cruenta. Ma una politica estera forte si fonda anche su una politica di difesa comune forte”.
E la seconda ragione?
“È di carattere economico. Le stime dell’Istituto Affari Internazionali evidenziano che una forza armata comune del tutto paragonabile a quella statunitense, dunque con standard elevati, permetterebbe ai Paesi europei di risparmiare 100 miliardi all’anno. Ma finora non ci sono stati grandi passi avanti e questo è preoccupante”.
Come si potrebbe costituire la forza armata europea?
“Seguendo un modello razionale. Non avrebbe senso che ogni nazione mettesse un pezzo o inviasse un battaglione perché, in questo modo, ciascun Paese continuerebbe a mantenere anche le sue forze armate. Se invece pensiamo ad una transizione, ad esempio, da 2 milioni di uomini a 500mila indipendentemente dal Paese allora si può costruire un’impronta comune”.
Chi sono i signori del riarmo in Europa?
“I potentati legati alle industrie militari. L’Europa ha dei campioni di industrie militari che non temono il confronto con quelle statunitensi. Bae Systems è la più grande industria militare europea con sede nel Regno Unito. Eads, Finmeccanica, Thales, Safran e tante altre puntano al riarmo, spingono affinché l’Europa metta in campo una risposta militare per tutte le crisi. Sono industrie con protezioni forti. Basti pensare alla Bae Systems: il governo Blair ha posto il segreto di Stato sulla possibilità di andare ad indagare anche solo la sussistenza di fenomeni corruttivi legati alla vendita di armi all’Arabia Saudita. Dal punto di vista politico l’industria militare che vuole continuare ad avere delle commesse, e può averle solo dagli Stati, esercita un’enorme influenza”.
L’intervento militare, nei tanti fronti aperti in giro per il mondo, è l’unica soluzione possibile?
“L’approccio militare nelle crisi si riverbera anche successivamente. La ricostruzione, quando si riesce ad ottenerla, è sempre e solo materiale. Ma senza una ricostruzione sociale, quella materiale non ha effetti. Se da alcune zone dei Balcani si togliessero le forze di interposizione, ancora oggi ci sarebbero problemi. E così in Libano e in altre zone del globo. Ciò non significa che la forza di interposizione non sia utile a evitare che esploda nuovamente il conflitto armato. Ma se non si investe in una risoluzione sociale ed economica ci troveremo sempre costretti ad utilizzare le forze armate che altro non fanno se non rendere ancora più problematiche le situazioni endemiche”.