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Beato Paolo VI, “Pensiero alla morte”

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Di Paolo Bustaffa

Leggi Pensiero alla morte

“Questa vita mortale è, nonostante i suoi travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la sua fatale caducità, un fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente, un avvenimento degno di essere cantato in gaudio e in gloria: la vita dell’uomo!”.
Anche per chi sta ai bordi della cronaca questo è un criterio d’immenso valore per interpretare fatti e problemi d’attualità. Vale la pena rileggere, alla vigilia della beatificazione di Paolo VI, il “Pensiero alla morte”, da cui è tratto il brano. È un inno al dialogo e all’abbraccio della cronaca e della storia con l’eternità. Le angosce, le attese e le speranze, anche oggi visibili nel mondo, non sono un groviglio inestricabile se, scrive il Papa, non si dimentica in un angolo “la lucerna che Cristo ci pone in mano”. Con questa luce è possibile dire che, nonostante tutto, il mondo in cui viviamo “è un panorama incantevole”, è “un universo dalle mille forze, dalle mille leggi, dalle mille bellezze, dalle mille profondità”. Nel rivedere questo panorama al declinare delle sue giornate Paolo VI esclama: “Tutto era dono, tutto era grazia”.
Parole che ricordano quelle degli intellettuali cattolici francesi che lo avevano ispirato anche nel guidare il Concilio verso il porto sicuro della Verità e della Carità.
Parole che fanno rivivere la tenerezza di un Papa per l’umanità sofferente e richiamano il suo straordinario impegno per un dialogo fecondo tra Chiesa e modernità, tra fede e cultura.

È un comunicare fondato su quell’umiltà che nel “Pensiero alla morte” arriva a diventare domanda a Dio: “Perché hai chiamato me, perché mi hai scelto? Così inetto, così renitente, così povero di mente e di cuore?”. E poi la risposta: “La mia elezione indica due cose: la mia pochezza; la Tua libertà, misericordiosa e potente. La quale non si è fermata davanti alle mie infedeltà, alla mia miseria, alla mia capacità di tradirTi.”
Con l’inquietudine agostiniana, che sperimentano coloro che cercano e vivono l’incontro tra finito e Infinito, Papa Montini continua a camminare nella cronaca e nella storia con i passi dell’intelligenza evangelica.
In questa stessa inquietudine si pone la testimonianza del suo amore universale. “Mille fili – scrive – mi legano alla famiglia umana, mille alla comunità che è la Chiesa. Questi fili si romperanno da sé, ma io non posso dimenticare ch’essi richiedono da me qualche supremo dovere”.
Il supremo dovere è quello di fare della morte un “testamento d’amore”.
Lo spiega, sempre nel “Pensiero alla morte”, rivolgendosi in particolare alla Chiesa, che vuole “povera e libera, forte e amorosa verso Cristo”.

Afferma Papa Montini: “Vorrei abbracciarla, salutarla, amarla, in ogni essere che la compone, in ogni vescovo e sacerdote che l’assiste e la guida, in ogni anima che la vive e la illustra; benedirla. Anche perché non la lascio, non esco da lei, ma più e meglio con essa mi unisco e mi confondo: la morte è un progresso nella comunione dei Santi”.
Questo pensiero richiama l’immagine di una Chiesa per la quale Paolo VI si muove con i passi della profezia e non con quelli del dubbio. Il suo camminare sulle strade visibili del mondo e sulle strade invisibili della cultura è anche oggi “un fatto bellissimo”. Forse occorre mettersi ai bordi della cronaca per coglierne la particolare attualità.