Un milione e mezzo di persone in quarantena in tre distretti della Sierra Leone, isolate senza scorte di acqua e cibo. 9.000 persone infettate e 4.000 morti, di cui la metà in Liberia, nei tre Paesi più colpiti dal virus Ebola: Sierra Leone, Liberia e Guinea Conakry. La maggior parte degli ospedali pubblici e quelli cattolici sono chiusi per evitare il contagio e perché gli operatori non sono preparati né hanno le attrezzature necessarie. Non ci sono i laboratori per fare i test che accertano l’infezione. La gente, non potendo recarsi nei centri sanitari, comincia a morire anche per altre malattie curabili, come la malaria e la febbre tifoide. Le donne non possono andare a partorire in ospedale, così rischiano di morire di parto. I bambini di malnutrizione infantile. E sono già migliaia gli orfani dell’Ebola, ai quali bisogna assicurare accoglienza e un futuro. È la drammatica situazione descritta oggi da missionari e operatori impegnati in prima linea, in collegamento telefonico con Roma durante la conferenza stampa convocata da undici organizzazioni cattoliche (Caritas italiana, Camilliani, Fatebenefratelli, Salesiani di don Bosco, Saveriani, Cuamm-Medici con l’Africa, Avsi, Focsiv, Giuseppini del Murialdo, Vis, Associazione Dokita) per aumentare l’attenzione e la consapevolezza sull’emergenza. L’appello al governo italiano e alla comunità internazionale è ad impegnarsi maggiormente a costruire centri di trattamento specializzati e a rafforzare la risposta umanitaria dove necessario, piuttosto che preoccuparsi solo di una eventuale diffusione del virus in Europa.
Riaprire gli ospedali chiusi. “Bisogna riaprire gli ospedali chiusi e riprendere i parti in sicurezza e le cure mediche per le altre patologie – ha chiesto Moira Monacelli, operatrice in Africa occidentale di Caritas italiana, a nome di tutte le organizzazioni -. Altra emergenza è la sicurezza alimentare, le economie sono in sofferenza, più del 60% della popolazione in questi Paesi vive con meno di 2 dollari al giorno. Poi c’è una preoccupazione a medio e lungo termine per la mancanza di manodopera nei raccolti”. In questi Paesi si muore anche per ignoranza: “Ebola era un virus sconosciuto – ha ricordato Monacelli -. È necessaria una attività di prevenzione portata avanti dagli animatori locali, perché il messaggio diventi più autorevole ed ascoltato. Anche il corpo del defunto deve essere trattato con cautele per evitare il contagio. Questo si scontra con la cultura locale che accompagna il malato fino alla morte”. Dalla Guinea Conakry il presidente della Conferenza episcopale monsignor Emmanuel Felemou, vescovo di Kankan, ha ribadito l’importanza del coinvolgimento dei leader religiosi nella sensibilizzazione delle comunità: “Molti pensano che la malattia sia una maledizione e un castigo del Signore, noi dobbiamo aiutarli a capire che non è così”.
In Sierra Leone non c’è cibo. Nella zona nord della Sierra Leone più colpita dall’emergenza, padreNatalio Paganelli, amministratore apostolico di Makeni, sta coordinando una task force diocesana a supporto degli aiuti governativi e delle organizzazioni internazionali. Gli ospedali sono ancora chiusi. “Gli interventi sono stati tardivi – ha detto -. Ora speriamo che entro due/tre mesi arrivino a Makeni e in altre città i cinque centri di cura annunciati dalla Gran Bretagna, che ha investito circa un miliardo di euro. Per ora è iniziato l’allestimento degli ospedali da campo”. Padre Paganelli ha raccontato della difficoltà a riconoscere il virus ai primi sintomi: “Ogni 10 km ci sono check point che misurano la temperatura. Ma anche la malaria comporta la febbre a 39° e spesso le persone vengono isolate senza essere malate di Ebola”. Inoltre, servono laboratori attrezzati anche per ridurre i tempi di attesa dei risultati del test (attualmente di tre giorni), per non rischiare di ritardare troppo l’inizio delle cure. La diocesi di Makeni, nella zona di quarantena, sta distribuendo aiuti alimentari alle famiglie, che non hanno scorte di cibo nelle case. La diocesi si trova a fronteggiare anche il problema degli orfani. “Bisogna trovare centri di accoglienza e aiutarli a costruire il loro futuro”.
La dura vita in quarantena. Rispetto ad altre emergenze sanitarie, la situazione è resa ancora più grave dal fatto che il virus è arrivato nelle periferie delle grandi città, dove la gente vive in campi profughi o in condizioni molto precarie. Sempre in Sierra Leone, nella capitale Freetown: “Per ora abbiamo distribuito riso, cipolle e altri alimenti base – ha raccontato padre Maurizio Boa, dei Giuseppini del Murialdo -. Manca il cibo. Le persone non vanno più per le strade a vendere i loro prodotti. Inoltre i prezzi sono aumentati, perché c’è chi specula per i propri interessi. Dopo 23 giorni di quarantena sono stati trovati 45 morti nelle case”. Dall’ospedale di Lunsar, in Sierra Leone, chiuso dopo la morte di quattro religiosi, una suora e diversi collaboratori laici il direttore generale dell’Ospedale San Giovanni di Dio, fra Michael Koroma, dei Fatebenefratelli, ha confermato l’intenzione di riaprire il centro in condizioni di sicurezza. Secondo fraMarco Fabello, direttore del Fatebenefratelli di Roma, “è una vergogna che ci si accorga di Ebola solo quando gli europei tornano a casa ammalati”.
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