A Mario Martone, con “Il giovane favoloso”, è riuscita una delle imprese più difficili, e non solo nel cinema: mettere insieme immaginario collettivo e profondità di introspezione alle prese con uno degli autori più letti in assoluto, almeno nel Belpaese, ma anche prigioniero da due secoli di uno stereotipo duro a morire: il rapporto tra pensiero e corpo. Era questo uno dei motivi spinosi che poteva creare qualche problema al regista, che ha superato la prova, anche se con qualche concessione alla oleografia leopardiana, come quando il poeta recita i versi dell’Infinito mentre sarebbe stato meglio limitarsi all’inquadratura di lui e della natura circostante, con i versi scanditi dalla voce fuori campo. Anche perché sarebbe stato in linea con il messaggio che scaturisce da questo Leopardi: non ci può essere coincidenza assoluta tra corpo e pensiero, e questo vale per tutti quelli, critici compresi, che hanno tentato in tutti i modi di imprigionare Giacomo dentro anguste gabbie ideologiche.
La scena in cui il poeta alza la voce di fronte a quegli intellettuali che cercano di attribuire il “pessimismo” al suo stato fisico, è la chiave per capire il messaggio dell’intero film. Il regista opera in modo tale che non si possa però dire neanche il contrario, che cioè il corpo e il vissuto di Leopardi non abbiano influenzato il suo pensiero e la sua poetica. Dove sta la verità, allora? Nel fatto che anche se riuscissimo a ripercorrere minuto per minuto la vita del grande poeta non avremmo che scarse briciole del senso della sua lirica e del suo pensiero più recondito.
La letteratura non è che una piccola parte dell’animo dell’uomo, ne riflette alcuni aspetti, ma non è l’uomo, così come non lo è il suo aspetto fisico. È stato così che una serie di successive incrostazioni si sono sedimentate sull’immagine dell’autore dell’Infinito, senza coglierne quasi mai l’aspetto profondo, impresa impossibile dal momento che ogni nostra ricostruzione è influenzata dalla prospettiva individuale e quindi parziale dalla quale noi guardiamo. Il regista del “Giovane favoloso” sapeva che il rischio era questo, e si è attenuto alla poetica, quella ricavabile dallo Zibaldone, dalle Operette morali e da alcune tra le più celebri liriche.
Anche il delicatissimo problema di una possibile fede di Leopardi è affrontato con grande equilibrio: le oscillazioni del poeta non ci permettono di dare un giudizio definitivo. Un momento del film ci dà il senso esatto di questa complessità, quando Giacomo parla del dubbio, paradossalmente la sola certezza che per lui un uomo può avere. Questo dubbio non è la negazione assoluta di un senso: cento anni più tardi i fisici lo applicheranno alle cose di scienza che a fine Ottocento sembravano leggi certe e ineludibili.
Una delle scene più suggestive è quella in cui la natura, parlando con l’islandese della celebre Operetta morale, sotto forma di statua in continua trasformazione, afferma: “Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo”. La scena la dice lunga sulla cosiddetta ideologia leopardiana: noi non possiamo dire molto sul mondo e sul cosmo, anche perché non ne abbiamo le chiavi, e quindi è lecito dubitare e delle interpretazioni medesime dell’universo, e della nostra capacità di dare un senso alle cose. La sua sospensione del discorso teologico (Loretta Marcon, una delle più accreditate esperte di Leopardi, sostiene che egli fosse credente) non è una professione di nichilismo o di ateismo, ma una disamina della condizione dell’uomo nel rapporto con la natura che lo circonda.
Non è in realtà Pasolini la figura più prossima a questo Leopardi, (interpretato in modo assai convincente da Elio Germano), come da più parti è stato affermato, sebbene il senese Federigo Tozzi, vissuto cento anni dopo: ambedue si sono scontrati con una provincia inclemente e talvolta crudele con i non sottomessi alle sue abitudini, ambedue hanno sognato la gloria e l’affermazione a riscatto della mediocrità del proprio presente, ambedue hanno scritto della violenza cieca e implacabile di una vita in cui sembra regnare il caos, senza mai tagliare i ponti con la possibilità di altro, al di fuori della materia. Tozzi era credente, ma nelle sue opere la realtà sembra in balìa del caos. Il film di Martone ha questo grande pregio, di non aver generalizzato e svilito il complesso pensiero di Leopardi, riportandolo alle sue coordinate storiche, culturali e private, senza ingabbiarlo in stereotipi superficiali.