Non è stata la domanda in sé, ma il modo con cui mi è stata posta. «Don, ho una domanda malefica. Posso?». Da Micol potevo aspettarmi di tutto. Dalla sua esuberanza, dalla sua intelligenza, dalla sua curiosità. E sinceramente un po’ di timore l’ho avuto. Ma appena abbiamo cominciato il dialogo tutto si è semplificato. Due mondi che si incontrano. Due timori che si dissolvono. Piccoli pregiudizi vinti.
Rimane in me l’impressione che noi preti siamo visti come esseri viventi singolari, dei “marziani”, praticamente estranei alla realtà, che dicono cose perché le devono dire, le fanno perché le devono fare, quasi senza mai pensare. Quasi fossimo finti esecutori di azioni, senza sentimenti e senza desideri.
E questa diffusa, ma errata, opinione non è priva di fondamento. Perché siamo proprio noi preti, che spesso diamo l’impressione di essere quasi estranei alla realtà, con le nostre parole scontate, i gesti vuoti e le risposte presuntuose. Quasi timorosi di mostrare sentimenti, desideri, fragilità. Con l’ansia di mostrarci perfetti, ma falsi. Autoritari, ma freddi. Retorici, ma vuoti.
La mia vita di prete non è diversa da quella di tutti gli uomini e le donne di questo tempo. Credenti e non credenti. Il mio limite e il mio peccato. La fatica di arrivare ovunque e di fare tutto. La paura di non prendere le giuste decisioni, di non vivere correttamente le relazioni, di non saper andare oltre l’immediato e l’esteriore. Soprattutto, la quotidiana constatazione di quanto la mia vita sia lontana dal Vangelo che predico. Anche se davvero ce la metto tutta. E poi l’inadeguatezza alle domande che mi vengono rivolte. Perché non ho le risposte automatiche. Neanche per me. E la delusione, le disillusioni, i fallimenti periodici.
Sempre chiedo aiuto, grido la mia preghiera al Signore. Ma anche ai miei amici credenti vicini alla parrocchia o lontani. A quelli non credenti e persino anticlericali. Qualcosa vorrei chiedere.
Non considerateci una sorta di marziani che vivono fuori dal mondo. E se spesso, noi preti, ne sembriamo estranei, aiutateci a tenerci dentro il naso e per terra i piedi. Non cercateci solo quando avete bisogno di qualcosa. Non siamo produttori automatici di sacramenti e benedizioni. Neppure burocrati distributori di certificati. Invitateci a casa, a pranzo, a cena, anche solo per un caffè. Cercate il dialogo con noi, soprattutto quando non avete bisogno di nulla. Impareremo insieme il valore della gratuità.
Non giudicateci facendo di tutta l’erba un fascio, praticando luoghi comuni e pronunciando slogan, ma sosteneteci con la preghiera e la vostra testimonianza. Siate misericordiosi con noi. Ma neppure prendete per buono tutto ciò che diciamo o facciamo. Usate sempre il vostro cervello e aiutateci ad usare il nostro. Non lasciateci prigionieri del nostro ruolo o del nostro abito. Prima conosciamoci, e poi mandateci pure a quel paese. Ma da “amici”.
Spesso ci si ferma a pregiudizi. Da una parte e dall’altra. E allora mi è venuta un’idea.
#invitaunpreteacena così per conoscersi meglio e abbattere pregiudizi e timori. #invitaunpreteacena per discutere, dialogare, condividere, raccontare la storia propria e accogliere l’altrui. #invitaunpreteacena per provare a fare qualche passo insieme, non più da antagonisti, ma da persone che si vogliono bene.
E ai miei fratelli preti suggerisco #invitatidaunpreteacena. Perché pure noi, spesso, pensiamo che i “marziani” siano gli altri. E invece no.
Tratto dal blog di Don Dino appuntidiunpellegrino.it