Da Zenit
Da quando il virus dell’Ebola ha cominciato a diffondersi in alcune regioni dell’Africa occidentale l’associazione umanitaria Medici Senza Frontiere ha lavorato senza sosta: circa 4.500 pazienti ricoverati, 2.700 risultati positivi al virus, molti di questi guariti e sopravvissuti all’epidemia.
I Medici hanno iniziato a rispondere all’emergenza in Africa occidentale dal marzo 2014. Come riferisce il sito ufficiale, sono circa 3.000 gli operatori di MSF che attualmente lavorano infatti nella regione, tra cui circa 250 operatori internazionali.
A Foya, nel nord della Liberia, l’associazione gestisce un centro di trattamento Ebola lungo la zona di confine con la Guinea, nel quale i pazienti ricevono terapie di supporto. Qui le équipe forniscono anche sostegno psicologico ai pazienti e ai loro familiari, eseguono attività di sensibilizzazione e promozione della salute, pratiche di sepoltura in sicurezza e forniscono un servizio di ambulanza.
Grazie a questo scrupoloso servizio i Medici senza frontiere sono riusciti a guarire mille pazienti dall’Ebola. Il traguardo è stato raggiunto proprio ieri con il 18enne Kollie James, curato nei Centri di Trattamento per l’Ebola in Guinea, Sierra Leone e Liberia. Riportiamo di seguito il racconto di Alex, padre di Kollie, come apparsa sul sito di MSF.
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Sabato 21 settembre è un giorno che non dimenticherò mai.
Stavo lavorando per MSF come promotore della salute, visitando villaggi e spiegando l’Ebola alle persone: come proteggere se stessi e le proprie famiglie, cosa fare alla comparsa dei sintomi, garantendo che tutti conoscessero il numero di MSF da chiamare in caso di necessità. Alla fine della giornata ho ricevuto una chiamata dal numero di mia moglie, ma non era lei. Ho risposto al telefono, ma nessuno parlava. Lei era a Monrovia con tre dei nostri figli mentre io mi trovavo a Foya, nel nord del Paese.
In quei giorni l’Ebola aveva raggiunto la Liberia. Io avevo provato a spiegare il virus alla mia famiglia ma mia moglie non ci credeva. L’avevo pregata di lasciare Monrovia e di portare i bambini al nord in modo che potessimo restare insieme ma non mi ha ascoltato perché negava che la minaccia fosse reale.
Più tardi quella sera, mi ha chiamato mio fratello per dirmi che mia moglie era morta. Ho scaraventato il telefono a terra. Stavamo insieme da 23 anni. Era l’unica che mi capiva veramente. Mi sembrava di aver perso tutto. I miei occhi erano aperti ma in realtà non vedevo nulla.
Qualche giorno più tardi ho ricevuto un’altra telefonata da Monrovia. Mio fratello, che lavorava come infermiere e si era preso cura di mia moglie, si era infettato ed era morto. Le mie due figlie più piccole sono state portate nel centro di MSF a Monrovia, ma erano molto malate e non ce l’hanno fatta. Mi sentivo ancora più impotente. Mi sembrava di impazzire. Niente aveva più senso.
Il maggiore dei miei figli, Kollie James di 18 anni, era ancora a Monrovia nella casa dove la nostra famiglia si era ammalata, ma non mostrava i sintomi della malattia. Mi ha chiamato e mi ha detto: “tutti si sono ammalati e io non so cosa fare”. Gli ho detto di venire a Foya per stare con me.
Quando mio figlio è arrivato, le persone del villaggio ci hanno allontanato. Dato che i nostri famigliari erano morti, mi hanno detto di portar via Kollie James. Ero arrabbiato per la loro reazione. Sapevo che non avendo i sintomi non era una minaccia per loro, ma a causa dello stigma non volevano che restassimo lì. Ci siamo dovuti trasferire.
La mattina seguente mio figlio sembrava più stanco del solito. Ero preoccupato. Non aveva sintomi come vomito o diarrea, sembrava solo stanco. Ho chiamato il numero d’emergenza per l’Ebola e MSF l’ha portato al centro di trattamento a Foya per fare il test che è risultato positivo. E’ stata una notte di agonia. Non ho chiuso occhio. Piangevo e pensavo a cosa sarebbe accaduto a mio figlio.
Il giorno dopo gli psicologi di MSF mi hanno calmato, mi hanno detto di aspettare, di stare tranquillo. Mi sono seduto con loro e abbiamo parlato a lungo. Ho potuto vedere Kollie nel centro di trattamento da dietro la recinzione e gli ho detto: “figlio, sei la mia unica speranza. Devi avere coraggio. Devi prendere tutte le medicine che ti daranno”. Lui ha risposto: “Papà, ho capito, lo farò. Smetti di piangere, non morirò, sopravvivrò all’Ebola. Le mie sorelle se ne sono andate, ma io sopravvivrò e sarai fiero di me”.
Ogni giorno gli psicologi mi sono stati vicino e mi hanno fatto parlare. E questo mi ha aiutato a stare meglio. Sapevano che non era una cosa da poco quello che stavo vivendo. Dopo qualche tempo, mio figlio ha iniziato a stare molto meglio. Iniziava già a muoversi per il Centro. Pregai tanto affinché sconfiggesse l’Ebola.
Fino al giorno in cui l’ho visto uscire, non riuscivo a credere che sarebbe successo veramente. Ero così felice. L’ho guardato e mi ha detto “Pa’, io sto bene”. L’ho abbracciato. Molte persone sono venute a vederlo non appena è stato dimesso. Erano tutti così felici di vederlo fuori.
Poi MSF mi ha riferito che Kollie è il millesimo paziente sopravvissuto all’Ebola. Questa è una bella notizia, ma allo stesso tempo pensavo a tutte quelle persone che abbiamo perso. Quante non sono riuscite a sopravvivere? Naturalmente sono molto contento di avere Kollie qui con me, ma è molto difficile non pensare a tutti quelli che non sono più tra noi.
Quando l’ho portato a casa ho deciso di fare una piccola festa per lui. Da allora, io e mio figlio facciamo tutto insieme. Dormiamo insieme, mangiamo insieme e conversiamo molto. Un giorno mi ha detto che vorrebbe studiare biologia e diventare un medico. Proprio così! Ora che mio figlio è guarito dall’Ebola vivremo solo per noi due. Voglio fare tutto il possibile per far sì che realizzi i suoi sogni e possa avere successo nella vita.