BarrosoDi Gianni Borsa

Vite parallele. Eppure convergenti. Prendendo a prestito una classica figura retorica della politica italiana, si può provare a interpretare il passaggio di testimone alla guida della Commissione europea. Il 1° novembre, infatti, il presidente uscente José Manuel Barroso, portoghese, va a riposo dopo dieci anni di servizio (tra luci e parecchie ombre) a Bruxelles; al suo posto arriva il lussemburghese Jean-Claude Juncker, che inizia un mandato altrettanto in salita.
Barroso, classe 1956, sposato, tre figli, alle spalle un’accennata carriera accademica, nel Portogallo del dittatore Salazar è stato in età giovanile attivista degli studenti universitari maoisti, salvo poi convertirsi, nella ritrovata democrazia della Rivoluzione dei Garofani, al Partito socialdemocratico, ovvero il centrodestra lusitano. Da lì è stato eletto deputato, ministro degli esteri e infine premier, giunto alle cronache mondiali per aver ospitato nel 2003 il vertice tra George W. Bush e Tony Blair per pianificare l’invasione dell’Iraq.
Dal canto suo Juncker, nato nel 1954 in una modesta famiglia operaia, sposato, due figli, un inizio di percorso professionale da avvocato, ha aderito giovanissimo al partito democristiano del Granducato, per divenire presto parlamentare, quindi ministro, poi primo ministro. Ma nel suo curriculum figurano anche il governatorato del Fondo monetario internazionale e la presidenza dell’Eurogruppo. Quello stesso Eurogruppo che si è trovato di fronte, nel 2008, la crisi del debito sovrano e che ha varato la temutissima e rigorista “troika”.
I due leader europei sono dunque accomunati dall’appartenere alla stessa generazione post-bellica, dalla militanza nel Partito popolare europeo, con la medesima linea direttrice moderata-conservatrice, e da un sano radicamento nell’identità nazionale, pur coltivando, con coerenza, una solida prospettiva comunitaria. Entrambi hanno ricoperto ruoli di primo piano nell’Ue, che negli ultimi 15 anni ha cambiato faccia: l’introduzione dell’euro, il fallito processo costituente, il “grande allargamento” a est, il varo del Trattato di Lisbona… Tutti e due hanno quindi assistito all’arrivo della recessione, accorgendosi che né le economie nazionali dei Paesi membri né l’Ue nel suo insieme disponevano di strumenti e di capacità di reazione adeguati per far fronte alle sfide globali e al disastro dilagante. Da qui il faticoso cammino per costruire una vera governance economica, tuttora in corso.
Ebbene, molti commentatori si sono prodigati per segnalare, col passaggio da Barroso a Juncker, un imminente cambio di passo nella politica economica comunitaria. È finito il tempo del rigore, s’è detto, comincia quello del sostegno alla crescita. Eppure le biografie dei due presidenti della Commissione, le loro scelte remote e recenti, i discorsi pubblici lasciano intendere altro: ovvero che l’uscita dalla crisi nel segno dello sviluppo dell’economia reale e del lavoro è l’obiettivo condiviso; ma altrettanto condivisa è la consapevolezza che senza conti pubblici in regola e riforme strutturali da realizzare in sede nazionale, gli investimenti per la crescita non sono oggettivamente possibili. Qui si è fermato José Manuel, da qui riparte Jean-Claude. E se Barroso ha dovuto giocare in difesa, per rintuzzare gli assalti della speculazione, i fallimenti bancari e aziendali e il lievitare della disoccupazione, Juncker adesso non potrà che andare in attacco, per una “missione possibile”: riorganizzare le fila, mettere in azione, tanto per cominciare, i promessi 300 miliardi di investimenti e così ridar fiato a imprese, consumi e – soprattutto – all’occupazione.
Lo stesso Jean-Claude Juncker nell’assumere il comando della Commissione (che è l’organismo esecutivo dell’Ue, motore delle politiche comuni, gestore del bilancio di Bruxelles nonché “custode dei Trattati” e del loro rispetto) ha parlato di “ultima chance”, per l’Europa e gli europei. Forse con meno enfasi, ma con altrettanta convinzione, Barroso ha spesso affermato che “ai problemi comuni occorre fornire soluzioni comuni”. Cambiano le parole, ma il concetto è lo stesso. Ciò che serve è – sempre per citare Barroso – una “Europa dei risultati”. La quale può funzionare se i governi degli Stati membri non si mettono di traverso, come capita di frequente; e questa è anche la strada per sanare il gap democratico dell’Ue e fare in modo che i cittadini tornino a credere nella “casa comune”, così da superare quei nazionalismi e populismi che oggi albergano in ogni angolo d’Europa. Barroso lo sa bene, Juncker è avvisato.

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