Di Daniele Rocchi
“I daesh, i daesh!”: lo ripete a lungo, senza sosta. Negli occhi ancora la paura di quei momenti quando i daesh, acronimo arabo di Isis, Islamic State of Iraq and the Levant, hanno invaso, i primi di agosto, il suo villaggio, Qaraqosh, il più grande tra quelli cristiani situati nella piana di Ninive, dove erano già riparati moltissimi abitanti di Mosul. Poi la lunga fuga verso la frontiera giordana e l’arrivo a Zarqa, a nordest di Amman, dove da più di tre mesi vive ospite, con la famiglia del figlio, lei che è vedova, in una stanza messa a disposizione dalla Fondazione don Orione, attigua alla scuola di san Giuseppe, frequentata da 580 ragazzi, quasi tutti musulmani. J. racconta quei momenti con le lacrime agli occhi ma con la dignità di chi ha ancora qualcosa di grande valore da difendere, “la mia fede cristiana”. Stesa sul letto, a causa di una ferita alla gamba che si è procurata mentre fuggiva, J. ricorda quei momenti: “sono venuti all’improvviso e in meno di tre ore il paese, 50mila abitanti, si è svuotato. Sono scappati tutti prima che i daesh iniziassero la mattanza. Non ho notizie dei miei parenti. Spero solo si siano messi in salvo. Non ho più nulla” aggiunge mostrando un trolley vuoto e malmesso riposto sotto il letto. La vita di J. e della sua famiglia è tutta in quel trolley che non le servirà per tornare a casa. “Rientrare a Qaraqosh non si può finché ci sarà l’Isis. E anche se venissero cacciati come potremo fidarci di quei musulmani con i quali abbiamo condiviso la tavola per anni e che adesso hanno preso tutti i nostri averi?”. Gli occhi si velano di lacrime mentre cercano lo sguardo dei vicini. Tra loro padre Hani Jaamel, iracheno di Qaraqosh, che da circa tre anni svolge la sua missione nella comunità orionina di Zarqa.
“Nel nostro centro – spiega il sacerdote – assistiamo già 150 famiglie siriane della zona di Homs, per un totale di circa 600 persone in maggioranza musulmane, cui si sono aggiunte, da poco più di tre mesi, 250 famiglie di iracheni provenienti da Mosul e dalla Piana di Ninive, Qaraqosh soprattutto. Di questi nuclei familiari, 13 sono alloggiati qui da noi perché non hanno dove andare”. Ogni 15 giorni tutte queste famiglie vengono alla Fondazione a ritirare un voucher, che varia dai 40 ai 70 dinari, più o meno lo stesso valore in euro, con cui faranno la spesa. La procedura è semplice: nei giorni stabiliti, le persone iscritte al programma si recano al centro e, dopo aver mostrato ai volontari il certificato di riconoscimento rilasciato loro dai funzionari Onu per i rifugiati, ritirano il voucher. All’esterno, mentre gli uomini attendono con calma il loro turno, le donne vigilano sui bambini che giocano sulle giostre. “Un progetto che funziona e finanziato l’anno scorso anche con i fondi dell’8×1000 della Cei” come conferma don Alessio Cappelli, presidente della Fondazione don Orione. “I siriani sono fuggiti dalla guerra civile e sono piuttosto circospetti, parlano poco anche tra loro ed è comprensibile in quanto appartengono a fazioni in lotta, filo-governativi e filo-ribelli – continua padre Jaamel – quelli che assistiamo qui al centro sono andati via dal campo profughi di Zaatari, non molto lontano da Zarqa, dove vivevano in condizioni pessime. Ora vengono da noi per chiedere aiuto. Sanno, infatti, che dove c’è una chiesa cristiana trovano aiuto e rispetto. Non una tendopoli sovraffollata ma un avamposto della carità”. Diverso il discorso che riguarda gli iracheni. “Quelli che sono qui da noi sono cattolici di rito caldeo, fuggiti dalle persecuzioni dell’Is. I loro beni sono venduti nelle piazze di Mosul, le loro case occupate e assegnate ai miliziani dello Stato islamico. Sono fuggiti in 150mila e molti sono a Erbil, in Kurdistan, ammassati in condizioni pietose. L’inverno sta arrivando e per loro sarà molto dura se non intervengono aiuti internazionali. Una emergenza umanitaria di cui nessuno parla”.
La palazzina della Fondazione intanto ha ripreso vita. Bambini corrono avanti e indietro per le scale. C’è chi prepara i turni per le pulizie e la cucina, i giovani predispongono quelli per la custodia e la vigilanza. Si sente il rumore delle lavatrici e delle pentole. Menù del giorno: riso e verdure bollite. Qualcuno abbozza un sorriso mentre si dà da fare. Non riesce a sorridere Heba Khalil Wadee, 25 anni, di Qaraqosh, un tempo direttrice di asilo, oggi rifugiata, in attesa di emigrare all’estero. “Penso ai miei 35 alunni di cui non ho più notizie. Il mio futuro si chiama emigrazione. Per noi non c’è futuro né qui né in Iraq” dice con voce sommessa. “Paghiamo la colpa di essere cristiani. Ma che male abbiamo fatto per meritare tutto questo? Potevamo facilmente dire siamo musulmani, ma noi siamo cristiani. Nessuno si è convertito all’Islam e per questo siamo fuggiti. So che Papa Francesco ci è vicino. Le sue parole ci confortano ma non cambiano nulla. Stiamo sempre peggio. Dov’è la comunità internazionale?”. Nonostante tanti drammi c’è chi ancora crede in un futuro migliore, come Daniel, 10 anni anche lui di Qaraqosh. Per Daniel la fuga è stata quasi “come un gioco. In fondo con i miei familiari eravamo fuggiti e tornati altre due volte. A casa ho lasciato tutti i miei giochi per questo spero di tornarci presto. Lì ho i miei ricordi più belli come le foto della mia Prima Comunione. Vorrei tanto tornare ma non so se sarà possibile”. Intanto studia matematica, la sua materia preferita. Il futuro e la speranza passano anche per i banchi di scuola alla Fondazione don Orione di Zarqa.